Luigi fa il professore universitario a Milano e ha quasi del tutto dimenticato le sue origini pugliesi, fino a quando non è costretto a tornare a Mesagne, perché i suoi fratelli non riescono ad accordarsi sulla vendita di un terreno ricevuto in eredità. Il suo ritorno risveglierà in lui antichi ricordi, ma lo vedrà anche al centro di un intrigo inquietante: lo strozzino del paese viene assassinato e i principali sospetti sono due dei suoi fratelli…
Questa è la trama de La Terra, uno dei film da regista di quel Sergio Rubini che spesso nelle sue pellicole da autore ha portato appunto la sua terra e le ispirazioni che da essa è sempre riuscito a cogliere e a trasmetterci. Per questo motivo riteniamo che questo film possa essere considerato una sorta di “summa” del suo cinema, oltre ad essere molto probabilmente il più riuscito dal punto di vista estetico e narrativo.
Il sottotesto principale del racconto, infatti, è l’esistenza di un legame atavico e indissolubile che esiste tra l’uomo e l’ambiente in cui è nato e cresciuto, nonostante a volte ci sia la volontà di cancellare e dimenticare le proprie origini. Siamo in presenza, quindi, di una sorta di “trattato antropologico” sull’uomo e la sua terra, che ci restituisce uno spaccato molto vivido e reale di questo “misterioso” rapporto indissolubile.
Ed è proprio la nostra terra a renderci quello che siamo, a forgiarci nel nostro essere e a delineare la nostra natura e la nostra personalità. E ce lo dimostra Luigi, un Bentivoglio sorprendente, che dapprima appare compassato e compito, indossando una maschera formatasi naturalmente nel corso degli anni lontano da casa, per poi divenire via via sempre più sanguigno e irrequieto, facendo riaffiorare le caratteristiche della sua persona, sopite ma mai del tutto sparite. A tal proposito rimane impressa una scena particolare del film: Luigi, ormai del tutto sconvolto dalle varie vicissitudini che si è trovato ad affrontare dopo il suo ritorno a casa, durante un litigio con un cameriere si ritrova quasi “magicamente” ad esprimersi nel dialetto del suo paese. Si tratta di una sequenza che ha una doppia valenza: quella superficialmente ma piacevolmente comica e quella esplicativa del concetto di fondo che Rubini vuole esprimere con questa opera.
Per tutti questi motivi La Terra è un film percorso da un fremito che colpisce potentemente lo spettatore ponendolo di fronte al dilemma che colpisce anche la mite e tranquilla esistenza di Luigi, e Bentivoglio è davvero bravissimo a cambiare la sua maschera, trasformando la sua perenne espressione impassibile in un volto contratto da un susseguirsi di emozioni contrastanti. Si può quasi pensare, insomma, che Rubini (pur interpretando in questo film il mellifluo usuraio), abbia trasportato parte della sua esperienza autobiografica in questo personaggio, ponendoci e ponendosi un difficile quesito: è giusto tagliare totalmente i ponti con le proprie origini per inseguire le proprie velleità professionali o artistiche? O bisogna sempre mantenere un legame con l’ambiente che, volenti o nolenti, ha contribuito alla nostra formazione?
E il quesito è posto in maniera soave, senza forzature o suggerimenti interpretativi, con una fotografia che incornicia dei paesaggi idillici in maniera se vogliamo mistificatoria, dal momento che le stupende campagne di ulivi e le spiagge paradisiache nascondono un marcio non indifferente, altro “tarlo” che fa rendere amata-odiata una terra a coloro che l’hanno vissuta o la vivono.
Nota di merito anche al resto del cast che comprende Emilio Solfrizzi, Claudia Gerini, Massimo Venturiello e Paolo Briguglia. Su tutti, però, svetta Rubini stesso, che per questa sua opera si ritaglia un ruolo decisamente impressionante: il suo usuraio è un uomo talmente viscido e mellifluo da assumere dei contorni “horror”.
Certo non mancano delle note “dolenti”, a cominciare dal filone giallistico inerente l’assassinio di questo personaggio scomodo, che ha dei contorni di prevedibilità e banalità non indifferenti, fino ad arrivare ad un finale fin troppo conciliatorio. Tutto questo, però, non inficia la qualità complessiva del film, attraversato anche da riferimenti letterari di non poco conto, con Rubini che cita apertamente I Fratelli Karamazov di Dostoevskij e Mastro Don Gesualdo di Verga e con un’ironia sopraffina che arriva alla fine quando Luigi tenta di raccontare ciò che è successo alla sua compagna in treno, ma i rumori della locomotiva coprono totalmente il suono delle sue parole, segno che il rapporto primordiale dell’uomo con la propria terra e con la propria famiglia, non può essere spiegato in alcun modo.
RITRATTO DELL’ATTORE
Attore dal volto inconfondibile, con una vera e propria “faccia cinematografica”, Rubini, nonostante si sia prestato a volte alla commedia più “semplice”, si è sempre rifatto ad un cinema d’autore, sia come interprete che come regista.
Basti pensare, infatti, che ha cominciato nei primi anni della sua carriera cinematografica con registi del calibro di Giuseppe Piccioni, Federico Fellini e Sergio Citti, per poi collaborare con Carlo Verdone, Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores, Michele Placido e Francesca Archibugi.
Da regista ha esordito nel 1990 con il film La Stazione, in cui ha diretto se stesso, Margherita Buy (che è stata anche sua moglie), Ennio Fantastichini ed Emilio Solfrizzi. Dopodiché ha proseguito la sua carriera con molti altri film, tra i quali si ricordano spesso Tutto L’Amore Che C’è, L’Anima Gemella, Colpo D’Occhio e L’Uomo Nero.
Ha diretto anche molti altri attori, tra i quali Alessandro Haber, Giovanna Mezzogiorno, Gérard Depardieu, Violante Placido, Riccardo Scamarcio, Vittoria Puccini, Valeria Golino, Neri Marcorè e Isabella Ragonese.
Tra i riconoscimenti ricevuti nel corso della sua carriera ci sono un David di Donatello, un Nastro d’Argento, due Globi d’Oro e cinque Ciak D’Oro.
ALESSANDRA CAVISI