Westworld: l’autocoscienza delle macchine e l’infinita smania di possesso dell’uomo
È risultata, a conti fatti, la serie tv più vista della storia della rete via cavo americana HBO, una delle reti più importanti per gli appassionati di telefilm di un certo spessore. Moltissimi spettatori, quindi, si sono dedicati alla visione di questo “prodotto” sicuramente non semplicissimo ma del tutto coinvolgente sia dal punto di vista visivo che dal punto di vista contenutistico. Westworld, infatti, narra di un parco a tema in cui dei robot perfettamente uguali agli esseri umani, sia nelle fattezze che nei comportamenti, inscenano un vero e proprio mondo in cui gli avventori (solo ricchi facoltosi, visto che la permanenza all’interno dello stesso costa migliaia di dollari), possono ritrovarsi completamente immersi e catapultati nel mitico west, con tanto di donzelle da salvare, sceriffi da affiancare in lotte contro la criminalità, saloon, brutti ceffi e via dicendo.
Il racconto, però, non è dei più semplici da seguire, anche perché l’ideatore della serie, insieme a Lisa Joy, è Jonathan Nolan, fratello del regista Christopher Nolan, nonché autore delle sceneggiature di film intricatissimi ma suggestivi come Memento, The Prestige e Interstellar. Non è, però, la prima volta che Jonathan Nolan si accosta al mondo delle serie tv, visto che ha sceneggiato anche parecchi episodi di una serie amatissima come Person Of Interest, di cui ha diretto anche il pilot, come è successo con Westworld che lo vede alla regia del primo episodio.
Ovviamente è subito chiaro che il leit-motiv principale del telefilm è la contrapposizione tra uomo e macchina, l’eterna lotta che da sempre attrae gli appassionati di fantascienza, con l’affascinante e a tratti disturbante “delirio” di onnipotenza dell’uomo che pensa di possedere l’oggetto della sua creazione, prendendosi libertà illimitate nei suoi confronti (non mancheranno stupri, omicidi ed atti di estrema violenza compiuti ai danni dei robot che popolano il parco) e con l’opposta ribellione da parte di queste “creature” che sembrano man mano acquisire una sorta di coscienza della loro natura e della natura dei loro “usurpatori”, i loro creatori visti come dei veri e propri dei ai quali, però, si comincia a non obbedire più come prima. E la coscienza, anzi, l’autocoscienza, è infatti la chiave di volta di Westworld, la situazione verso la quale alcuni dei protagonisti si muovono in maniera preponderante.
Non mancano, inoltre, delle succosissime citazioni letterarie e cinematografiche, a partire dal vero e proprio modello di riferimento che è il film Il Mondo Dei Robot, scritto e diretto da Michael Crichton nel 1973, passando per Shakespeare più volte palesemente ripreso da alcuni dei protagonisti, arrivando ad Alice Nel Paese Delle Meraviglie (una dei robot, Dolores, è vestita come Alice per la maggior parte del tempo e si muove all scoperta di Westworld proprio come il suo modello di riferimento), l’immancabile Isaac Asimov (con particolare riferimento alla prima delle sue famosissime regole sui robot: “Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno”, anche se vedremo che si troverà il modo di eluderla) e, infine, addirittura la Bibbia con riferimento ad Adamo ed Eva incarnati da due particolari androidi.
Tramite alcuni personaggi, inoltre, Westworld regala anche dei momenti di metanarrazione e metatelevisione davvero interessanti. Si tratta dello sceneggiatore delle varie avventure che si possono vivere nel parco, Sizemore, e dell’ideatore degli androidi, l’anziano ed enigmatico Ford (magistralmente interpretato da un Anthony Hopkins a dir poco magnetico). A più riprese, i due, parlano di come si debba costruire una storia per riuscire ad appassionare i visitatori e sembra abbastanza chiaro che i due ci trasmettano le idee dello stesso Nolan in merito al modo in cui narrare per conquistare lo spettatore. Ma il personaggio interpretato da Hopkins, insieme a quelli interpratati da Ed Harris, Ewan Rachel Wood, Jeffrey Wright e Thandie Newton, sono quelli che catalizzano maggiormente l’attenzione dello spettatore, perché recano con sé non solo il peso di trasmettere i vari temi trattati nella serie ma anche un alone di fascino e mistero che li rende davvero irresistibili. Harris, rinominato “l’uomo in nero”, veste i panni di un avventore del parco molto particolare, decisamente sinistro e del tutto intento a risolvere una “sottostoria” molto particolare; la Wood è la già citata Dolores, un robot che, affiancata da un avventore che sembra subito interessarsi a lei (William), parte alla ricerca di un labirinto (via via sempre più al centro della storia) che sembra ossessionare sia lei che lo stesso uomo in nero; Wright interpreta il braccio destro di Ford, ma sembra avere una particolare connessione con Dolores, e la Newton veste i panni di Maeve, una prostituta che da dieci anni dirige un bordello in cui accoglie i visitatori, ma che ben presto comincia ad avere dei ricordi di una vita passata in cui era madre di una bambina, cosa che la porterà ad escogitare un piano di fuga. Pur essendo ognuno di loro perfettamente calato nella propria parte, spesso è stata la Wood a meritare il plauso dello spettatore, riuscendo ad incarnare alla perfezione l’androide nei suoi momenti più meccanici e in quelli più umani.
La cosa che, tra l’altro, riesce anche a fomentare durante la visione è che Westworld ci catapulta nel suo mondo, come se stessimo effettivamente giocando ad un videogioco, facendoci vivere varie sottoavventure e aprendo un’infinità di “mondi” alla nostra vista. Un altro elemento fondamentale della serie, fondamentale anche per la risoluzione di un grande mistero, proposto e risolto in maniera molto elegante, con una serie di indizi messi davanti ai nostri occhi sin dall’inizio, è la contrapposizione tra il bianco e il nero (del resto tra i produttori esecutivi figura anche l’immancabile J.J. Abrams, che già in Lost con questa contrapposizione ci aveva giocato parecchio).
Senza tralasciare il fatto che qualche difetto questa serie ce l’ha (soprattutto se consideriamo il filone narrativo che riguarda il piano di fuga di Maeve, con degli scivoloni decisamente evitabili) concludiamo citando la straordinaria colonna sonora di Ramin Djavadi che reinterpreta in maniera imperdibile brani dei Radiohead, dei Rolling Stones, dei Soundgarden e non solo.
Per tutti questi motivi, e per un finale che lascia aperti molti interrogativi sulle figure di Ford e di Dolores, non si può perdere la visione di questa fantastica avventura.
Miglior episodio – 1×01 The Original
Rimane impresso il primo bellissimo episodio, nonostante tutta la serie non vede mai momenti d’arresto, un po’ perché ci presenta per la prima volta la magnificenza di questo parco, un po’ perché ci sono dei momenti che, accendendo la miccia dell’autocoscienza degli androidi, rimangono di capitale importanza per tutto ciò che succede dopo. Ci riferiamo soprattutto allo straordinario momento in cui Dolores, nel ripetere il suo loop giornaliero, alla fine rimane infastidita da una mosca che le si posa sul collo, schiacciandola, cosa che non aveva mai fatto prima, non rendendosi nemmeno conto della presenza dell’animale. Ma ci riferiamo, anche, ad un altro importantissimo momento: quello in cui, il robot che “interpreta” il padre di Dolores, guardando una foto che ritrae il mondo esterno (foto persa da qualche avventore del parco, si scoprirà in seguito chi e sarà un momento decisamente rivelatorio), inizia ad andare in tilt, fino a quando non viene ritirato dai gestori del parco, non prima di rivelare qualcosa all’orecchio della figlia: “questi piaceri violenti hanno una fine violenta”. Una frase che sembra buttata lì a caso, ma che, ritornando più volte, pronunciata anche da altri personaggi, farà scattare qualcosa in questi androidi decisamente troppo simili agli esseri umani…
ALESSANDRA CAVISI