Australia, 1918. Il reduce dalla Grande Guerra Tom Sherbourne, per tentare di scappare dai recenti fantasmi della sua vita, decide di accettare il lavoro di guardiano del faro dell’isola di Janus Rock, lontano da tutto e tutti, in una sorta di consapevole eremitaggio. Ma contro ogni sua previsione, incontra l’esuberante Isabel Graysmark, una ragazza del posto che, con la sua freschezza e gioia di vivere, riuscirà a portare nuovo entusiasmo nel cuore di Tom, assopito e reso cieco dai recenti eventi bellici. Una volta sposati si trasferiscono sull’isola del faro, vivendo un’esistenza appartata dal mondo ma, in un primo tempo, piena di entusiasmo e passione.
L’eccitazione si spegne quando i due si scontrano con la difficoltà che ha Isabel di portare a termine le gravidanze, e la realtà di non poter coronare la propria esistenza con la nascita di un figlio. Dopo vari tentativi fallimentari, e una grave depressione che colpisce Isabel, ecco che inaspettatamente, come un segno del destino, arriva sull’isola una barca con un uomo morto e una neonata. Un naufragio che nasconde una terribile verità.
Manco a dirlo, i due decidono di tenere la bimba e di non rivelare a nessuno l’accaduto. La piccola diviene la luce dei loro occhi, e viene cresciuta come se fosse loro figlia naturale. Ma mentre i sensi di colpa di Tom crescono sempre di più, ecco che si farà viva la vera madre, e il film assumerà toni ancor più drammatici e conflittuali.
Diretto da Derek Cianfrance, La luce sugli oceani è tratto dall’omonimo romanzo di M. L. Stedman. Il regista ha rivelato in varie interviste che fu Steven Spielberg a segnalargli questa storia, che risulta essere per Cianfrance il primo film tratto da un romanzo e non scritto in prima persona. Nonostante tutti i buoni presupposti (un regista che in passato si è dimostrato all’altezza, una storia toccante, un cast significativo), alla fine del film si resta con l’amaro in bocca. Mai intenso come probabilmente nelle intenzioni del regista, il tormento dei due protagonisti non riesce ad emergere con forza e l’opera sembra scivolare via senza lasciare il segno.
I figli sono “di chi li fa” o “di chi li cresce”? È questa la domanda che attraversa tutti i 133 minuti del film, quesito al quale è difficile dare una risposta compiuta, e che mai come in questa pellicola viene trattato forse in maniera eccessivamente ampollosa e a tratti stucchevole.
Eppure tutti gli ingredienti per un buon film ci sono: la regia e la fotografia sono notevoli. È il mare a dominare la scena: il mare in tutti i suoi stati (calmo, agitato, in tempesta), a rappresentare i moti dell’anima. La natura selvaggia, l’orizzonte infinito, le albe e i tramonti di fuoco sono immortalati con impressionante sensibilità. Anche le interpretazioni sono più che meritevoli: meno convincente del solito Michael Fassbender, nel film la parte del leone la fanno le donne, Alicia Vikander e, soprattutto, Rachel Weisz, la vera madre della bambina, con ogni probabilità il personaggio più toccante e con maggiori sfaccettature.
Ma nonostante tutto il film non scalda il cuore: è come un’opera d’arte tecnicamente perfetta, ma fredda ed accademica.
Ciò che sorprende è che un film così “algido”, arrivi da un regista che in passato ha dimostrato con Blue Valentine (2010) e Come un tuono (2012) di essere maestro nel delineare in maniera profonda e senza nessuna facile concessione retorica la profondità dell’animo umano e le passioni che bruciano e, che in virtù di tale aspetto, aveva tratto il suo elemento distintivo.
Piccola parentesi rosa: sembra che proprio sul set di questo film sia sbocciato l’amore tra Michael Fassbender e Alicia Vikander, e stupisce che i due protagonisti non riescano a trasmettere sullo schermo la passione che li aveva colti durante le riprese.
Ciò che resta in definitiva è comunque un film dignitoso, anche se risulta essere più forte la sensazione di un film dalle grandi ambizioni ma con promesse non mantenute.
La luce sugli oceani è un melodramma che non avvampa: quasi un “ossimoro” per la natura di questo genere.
ANTONIO COPPOLA