La difficoltà di scrivere la recensione di un film di Terrence Malick è direttamente proporzionale all’impossibilità di comprendere fino in fondo le sue opere, oscure e complesse. Proveremo a fare un po’ di chiarezza su Song To Song. Siamo ad Austin, in Texas, realtà dalla rilevante tradizione musicale. È qui, tra ville lussuose e festival musicali, che si svolge l’intreccio di amore, amicizia, tradimento, tra BV (Ryan Gosling), aspirante musicista in fuga dalla sua famiglia e dalla sua realtà e Faye (Rooney Mara), anche lei cantautrice, già legata al tenebroso produttore musicale Cook (Michael Fassbender), grazie al quale spera avere un sostegno nella sua carriera. A questi personaggi, e ai loro tumulti sentimentali, si aggiungeranno poi la bella cameriera dalla vita semplice Rhonda (Natalie Portman), che non riuscirà a resistere al fascino crudele di Cook, e Amanda (Cate Blanchett), affascinante e insoddisfatta donna dell’alta società, che inizierà una storia con BV.
Iniziate le riprese nel 2012, il film ha visto luce solo nella primavera dell’anno corrente. Questa lunga pausa è stata determinata da una parte dal perfezionismo maniacale di Malick – il quale ha dichiarato che la prima versione del film durava addirittura otto ore – e dall’altra dalla circostanza che le riprese furono avviate contemporaneamente ad un altro progetto parallelo del regista, Knight of Cups, uscito poi nel 2015.
Con Song To Song Malick conferma la linea stilistica ed estetica iniziata con Tree Of Life, film Palma d’Oro a Cannes nel 2011, portandola alle estreme conseguenze.
Mentre si guardano scorrere le immagini del film, la sensazione, che cresce di minuto in minuto è che la trama, così vaga e confusa, sia un pretesto per concentrarsi, in modo manieristico ed autoreferenziale, solo ed esclusivamente sulle immagini stesse. Il film infatti è, manco a dirlo, un capolavoro dal punto di vista meramente estetico: la luce zenitale invade la natura, i paesaggi mozzafiato, gli interni di case da riviste di design e anche tutti i personaggi che si muovono nella pellicola. Il tutto è talmente limpido e terso da risultare addirittura asettico e freddo. E malgrado il cast di prim’ordine (un cast “attira pubblico” direbbero altri), una certa freddezza caratterizza anche le storie e le relazioni tra i protagonisti: pur trattando temi intensi come l’amore, la gelosia, il senso di colpa, il male di vivere, il vuoto interiore, lo spettatore non riesce a provare empatia con i personaggi e a far proprie le loro emozioni.
I dialoghi, le riflessioni, i conflitti non hanno la forza e le intensità presenti invece nelle immagini: per tutta la durata del film si cerca di scorgere un senso di profondità che evidentemente manca, o non è così rilevante.
La trama è un canovaccio nel quale gli attori sono chiamati ad essere se stessi: sullo schermo è un continuo abbracciarsi, baciarsi, sfiorarsi, rincorrersi, il tutto in maniera spontanea e senza filtri. Peccato che tutta questa naturalezza si perda nell’infinita e spiazzante frantumazione delle immagini, per cui in alcuni momenti ci si chiede cosa è venuto prima e cosa dopo, in un flusso temporale continuo, che evade qualsiasi regola e ordine.
Nonostante il film sia incentrato sul mondo della musica, questo aspetto non emerge in maniera sostanziale. E a niente valgono le illustri comparse di Patty Smith, Iggy Pop, Likke Li, Florence Walch: la musica, così come gli altri aspetti sino ad ora analizzati, sono “schiacciati” dalla regia che, ora in maniera frenetica, ora in maniera più pausata, mette insieme un puzzle di frame dalla bellezza cristallina, nitida, fragile.
Per un film così estremamente orientato sull’aspetto visuale, non si può non sottolineare il contributo essenziale dato all’opera dal direttore della fotografia, Emmanuel Lubizki, tre volte Premio Oscar e artefice della fotografia delle opere, tra gli altri, di Alejandro González Iñárritu e Alfonso Cuaròn.
Nel film erano poi inizialmente presenti tanti altri importanti attori, come Christian Bale e Benicio Del Toro, ma, come spesso accade nei film di Malick, durante la complessa fase di montaggio, le loro scene sono state tagliate.
La sensazione finale, una volta terminati i 129 minuti di pellicola, è che, probabilmente, Malick davvero non ha più nulla da dire, o molto poco: filosofia spiccia, dialoghi inconsistenti, nessuna concretezza narrativa. Un film che appare come un documentario artificioso ed algido, dalla bellezza sterile e impersonale, privo di sensualità ed erotismo e che nulla offre se non una perfezione visuale che dopo un po’ si risolve in una formula snervante e faticosa da seguire.
ANTONIO COPPOLA