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Due chiacchiere in palude con Paolo Zardi e il suo libro “La passione secondo Matteo”

La passione secondo Matteo è il recente romanzo scritto da Paolo Zardi, scrittore padovano che, dopo il successo con il precedente XXI secolo, sorprendentemente candidato al Premio Strega (sorpresa perché edito da una casa editrice indipendente e non certo perché non lo meritasse), è tornato a pubblicare con la Neo., agguerrita casa editrice abruzzese di buoni libri. Un attaccamento alla maglia da vero fuoriclasse della letteratura.

Questo nuovo romanzo risulta forse meno godibile dei suoi precedenti, poiché più duro e triste di XXI secolo (ma di una tristezza diversa… se leggerete entrambi capirete) e meno vitalista di tutto quello che ha scritto fino ad ora Zardi, ma un tassello importante per comprendere la sua poetica. E poi, anche se a qualcuno (come al sottoscritto) può far incazzare questa vis polemica contro il Sessantotto, il romanzo è comunque scritto bene e si legge bene, ed è questo che fa la differenza tra la vera letteratura e le chiacchiere.

Il Matteo del titolo è uno dei protagonisti, accanto alla sorella Giulia, nata dallo stesso padre, ma da due madri diverse (una veneta, l’altra siciliana). Il padre è Giovanni, giornalista giramondo e sciupafemmine, tipico rappresentante di molti stereotipi sul Sessantotto, che alla fine uscirà però come il più vero e onesto tra i tre. Uscirà da cosa? Da un’intricata storia che si chiude in Ucraina, dove i figli chiuderanno i conti con il padre, e le loro vite non saranno più quelle di prima. Non aggiungiamo altro per non rovinarvi la lettura, e vi lasciamo a questa chiacchierata fatta direttamente con l’autore, per cercare di capire i perché di un libro.

Come è nato La passione secondo Matteo?

Tra i libri che ho scritto, La Passione secondo Matteo è quello che ha richiesto più tempo: tra la prima idea embrionale e l’uscita in libreria sono passati nove anni, caratterizzati da false partenze, stravolgimenti e mille dubbi. Il nucleo iniziale riguarda il rapporto tra padre e figlio, visto attraverso uno dei miti centrali di diverse culture: il dio padre che sacrifica il figlio. Come diceva (giustamente) Nabokov, in una delle interviste contenute nello splendido Intransigenze, è che in letteratura le grandi idee non servono a niente, perché ciò che conta sono lo stile e la struttura; la sfida che mi sono posto è stata quella di riuscire a scrivere un romanzo che, nonostante le grandi idee sulle quali sarebbe stato costruito, fosse comunque letteratura. Per questo ho cercato di lavorare molto sui personaggi, sulla trama, sulla lingua. Il risultato si discosta, probabilmente, dalle altre cose che ho scritto, ma lo considero comunque un passo necessario nel cammino che, con pazienza, sto percorrendo.

Perché questa citazione alta, che va da Bach a Pasolini?

La Passione secondo Matteo di Bach è la scintilla che ha fatto nascere il libro: ero a casa di mio padre e in sottofondo c’era questa musica sublime, che io non conoscevo. Era l’atto finale, se così si può dire, di questa narrazione della passione di Gesù, del suo calvario, della sua morte: è venerdì sera, l’epilogo di due giorni che hanno oggettivamente cambiato la storia del mondo, ma gli apostoli ancora non conoscono il futuro. Sanno solo che il loro maestro è morto in un modo atroce e incomprensibile. Il sole sta tramontando su Gerusalemme… E Bach costruisce, sopra questa incertezza, su questo dolore, un coro capace di toccare le corde più profonde dell’essere umano. Non sono credente, ma conosco il “sentimento divino” – lo si può provare anche in assenza di Dio, così come chiunque sa cos’è l’amore anche se non ha mai avuto la fortuna di viverlo di persona. E ho pensato che mi sarebbe piaciuto parlare di questo sentimento, di provare a calarlo nella vita di alcune persone che, per sorte, si trovano a condividere un momento importante e terribile.

Quanto c’è di autobiografico nel romanzo?

Tutto e niente. Come Matteo, anch’io sono ingegnere e anch’io lavoro nel mondo dell’informatica e delle paolozardi1grandi aziende – perfino la mia casella di posta assomiglia alla sua, con l’infinità di mail prodotte in automatico da sistemi di monitoraggio automatico… Ma lui è cattolico e io ateo, lui è orfano di madre e io no; e lui ha molti meno capelli di me.

In generale, credo che chi scriva prenda la propria vita e quella delle persone che gli vivono accanto, le butti in un tritacarne e ne tiri fuori qualche chilo di ragù; e questo è un romanzo. Ogni dettaglio è vero, ma assemblato in modo del tutto originale. Stevenson, in una lettera ad Henry James del 1884, scriveva: “La vita è brutale, incoerente, sconnessa, piena di catastrofi inesplicabili, illogiche e contraddittorie. La vita inoltre lascia tutto sullo stesso piano, fa precipitare i fatti o li trascina indefinitamente. L’arte, invece, consiste nell’usare precauzioni e preparazioni, nel predisporre transizioni sapienti e dissimulate, nel mettere in piena luce, attraverso la pura abilità della composizione, gli avvenimenti essenziali, conferendo a tutti gli altri il rilievo adeguato”.

E ancora, nella stessa lettera: “Le persone credono che sia la “materia” che conti ma non si rendono conto del fatto che un diamante mal pulito non è che una pietra; sono convinte che le situazioni accattivanti o i buoni dialoghi nascano dall’osservazione della vita. Non riescono a capire che, invece, li si prepara con deliberato artificio e vi si arriva a furia di dolorose soppressioni”.

Non saprei raccontare meglio di così il mio punto di vista sul rapporto tra realtà e finzione!

I tre protagonisti del romanzo sono stati creati con dei modelli in testa? Quali sono i tuoi sentimenti nei loro confronti?

Esistono dei modelli di riferimento, delle persone che in qualche modo hanno fornito l’ispirazione iniziale, il template. Ma in questi casi conviene sempre staccarsi il prima possibile dall’originale, svincolarsi dai vincoli della realtà.

Per quanto riguarda i miei sentimenti nei loro confronti, devo ammettere di non essermi affezionato a nessuno dei tre, sebbene nel finale mi sia sentito molto vicino al tormento di Matteo. Il motivo è che, tra le tante sfide che mi sono imposto scrivendo questo libro, c’era anche quella di resistere alla tentazione di creare personaggi accattivanti – non per uno sfizio, ma perché questa distanza emotiva imposta a forza non consente al lettore di riconoscersi, e quindi impersonarsi, in Matteo, Giulia e Giovanni. Questa scelta, per certi versi controproducente, me ne rendo conto, mi ha però consentito di mettere in scena problemi etici e morali senza che il punto di vista di un personaggio prevalesse sugli altri o fosse considerato più giusto.

Leggendo La passione secondo Matteo, sembra ci sia una critica, non tanto velata, al Sessantotto. O mi sbaglio? Quali sono i tuoi sentimenti in merito?

paolozardi2Houllebecq, in un’intervista di due anni fa al Corriere della Sera, diceva che uno scrittore non dovrebbe mai avere idee troppo precise, o pareri consolidati, sugli argomenti di cui parla: sono d’accordo con lui. Nel libro Matteo, quarantenne benpensante con formazione cattolica, e Giovanni, settantenne ex sessantottino, si confrontano, e si scontrano, sul tema del Sessantotto, e lo fanno da fronti opposti. Io non mi schiero con nessuno dei due. Non mi interessa esprimere un parere sul Sessantotto – di questo, dovrebbero occuparsi gli storici, i sociologi, i politici, non gli scrittori –  ma creare una situazione di tensione dialettica.

Dal punto di vista personale, invece, ho un rapporto critico con il Sessantotto. Lo considero un momento importante nella storia dell’ultimo secolo, ma credo sia stato sopravvalutato, o mal compreso. Mi piace il clima di libertà che si respirava in quegli anni (e il confronto con questi anni mi atterrisce) ma non credo che il Sessantotto sia stato il punto più alto raggiunto della civiltà.

Allo stesso tempo, c’è la constatazione, che i valori contestati dal Sessantotto, la tradizione di una vita semplicemente vissuta nel mito di dio o dell’impresa, si sono completamente persi. O mi sbaglio?

Vale quanto detto sopra: sono i personaggi che parlano, non io. La Storia in generale non mi interessa, come autore; mi interessa invece come il mondo, con le sue contraddizioni e la sua violenza, condiziona la vita di ogni singola persona. Questo romanzo non parla di famiglia, di contestazione, di fede o eutanasia: racconta, invece, la famiglia di Matteo, la contestazione di Giulia, la fede di un uomo infelice, la morte di un uomo.

Dopo l’ambizioso XXI secolo, finalista al Premio Strega, quali sono state le aspettative (se ci sono state), per questo nuovo romanzo?

Nessuna aspettativa, in effetti. Dopo XXI secolo, e la visibilità che ha avuto grazie al Premio Strega, c’è stato un momento in cui mi sono detto: e adesso cosa faccio? È durato un quarto d’ora. Sono uno scrittore non professionista – scrivo perché mi piace farlo, perché amo costruire storie, perché penso che occuparsi di letteratura sia un buon modo di impiegare il tempo libero. Ho cercato di non portare le logiche lavorative all’interno di questo “giardino incantato” che per me è il mondo dei libri. Perciò mi sono limitato a scrivere quello che avrei voluto scrivere, senza preoccuparmi delle conseguenze – e mettendo sempre in conto che la pubblicazione è solo uno dei possibili esiti del lavoro di scrittura.

Ancora una volta Neo. come editore. Perché sempre loro? Sembri un fuoriclasse che non vuole abbandonare la sua piccola squadra, un attaccamento alla maglia veramente encomiabile…

Con la Neo. c’è un rapporto profondo, che va al di là della nostra comune avventura editoriale. Dopo lo Strega, ci sono state proposte da case editrici più grandi, come era abbastanza prevedibile; la scelta di uscire ancora con Neo. è stato un messaggio politico: la piccola editoria non è un trampolino per arrivare alla grande editoria. Il punto è, a differenza di quello che si pensa, l’editore non è l’azienda che pubblica il tuo libro, ma un gruppo di persone con le quali si condivide un progetto. Con Neo., c’è un progetto che va avanti dal 2009, nel quale credo e nel quale sono stato coinvolto in mille modi diversi, e che soprattutto non riguarda solo i miei libri.

Progetti futuri…

Ho scritto un libro molto cattivo che però fa ridere, politicamente un po’ scorretto, leggero nei contenuti ma forte nella forma – una commedia nera, una farsa rumorosa, un romanzo grottesco. Pensavo fosse impubblicabile, e invece è piaciuto – il che dimostra ancora una volta che è impossibile capire cosa vogliono gli editori. Uscirà nel maggio del 2018.

Ho scritto anche una commedia rosa sulla gravidanza di tre donne, così distante dalle cose che ho scritto che, se mai verrà pubblicata, sarebbe più conveniente farla uscire con uno pseudonimo. Altri progetti? Con la Neo. abbiamo ripreso a parlare di racconti, nei prossimi anni potrebbe uscire una nuova raccolta. E da qualche settimana ho iniziato a scrivere un nuovo romanzo per il quale ho un sacco di idee ma che non sono ancora riuscito a inquadrare in modo corretto.

DIEGO ALLIGATORE

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