Una grande opera si riconosce quando non resta figlia del suo tempo, ma è capace di adattarsi al corso dei tempi. Questa è la sintesi del grande lavoro di Anton Pavlovič Čechov, autore russo vissuto nella seconda metà dell’800, che ha regalato ai posteri alcuni lavori teatrali dal valore inestimabile, i quali tutt’ora mantengono intatta la propria grandezza e la propria morale. I personaggi di Cechov non sono degli eroi ma conducono la propria esistenza cercando di sopravvivere. La banalità del quotidiano emerge in modo forte, consuma il tempo e spinge la ricerca affannosa di una via d’uscita che non si troverà mai.
Recentemente abbiamo avuto il piacere di assistere alla messa in scena di Zio Vanja, una delle opere più importanti del grande autore russo, portata in scena da Marluna Teatro con la regia di Roberto Marafante.
Zio Vanja mette in scena una storia complessa, che vede l’intreccio delle vite di ben nove personaggi appartenenti ad una famiglia medio borghese.
Nella sterminata foresta russa, Sonja e suo zio Vanja portano avanti la tenuta di famiglia, lavorando giorno e notte. Il padre di Sonja, Alexandr, è un famoso professore e uomo di scienza, con una spiccata tendenza ipocondriaca, sposato con una giovane ed avvenente donna. L’equilibrio familiare viene rotto quando il professore decide di trasferirsi in campagna insieme a Sonja e Vanja, i quali sono costretti a sacrificare il loro tempo per dedicarlo ai capricci del vecchio capofamiglia.
Vanja è appesantito dall’età che avanza e dalle delusioni che la vita gli ha riservato. Si rende conto di aver sprecato una vita intera per dedicarsi agli interessi di un uomo vile e mediocre come il professore. Sonja, invece, si innamora perdutamente del medico di famiglia, sempre più presente nella tenuta a causa dei continui presunti malanni del padre. Un amore che però non viene ricambiato, dato che il professore, a sua volta, perde la testa per l’avvenente moglie di Aleksandr.
Il senso di vuoto, il disagio e l’imbarazzo che solo una nervosa risata riesce a colmare vengono espressi egregiamente dai protagonisti, creando un’atmosfera malinconica che coinvolge il pubblico e lo invita a riflettere sul senso della propria esistenza.
Vengono affrontati temi come il distacco generazionale che genera incomprensioni tra padri e figli, l’alcolismo per dimenticare una vita infelice, la noiosa quotidianità che rende l’uomo schiavo.
Tutto questo senza un banale lieto fine, ma attraverso la consapevolezza che solo il duro lavoro può riscattare un’esistenza senza senso.
MARCO ROSSOMANNO