1.Parliamo dei tuoi esordi: come ti sei avvicinato al mondo della fotografia?
Ho iniziato a fotografare da bambino, a 5 anni. Nei fustini del Dash si trovavano spesso delle macchinette fotografiche in regalo, completamente di plastica ma perfettamente funzionanti, dei giocattoli insomma! I miei genitori mi comperavano i rullini e poi li portavano a sviluppare. Ed un giorno mi dissero che il negoziante dove li sviluppavano si era complimentato e voleva conoscermi di persona. Una storia divertente. Io ho iniziato così.
Quando avevo 8 anni poi, iniziai ad usare la reflex di mia sorella che avendo 10 anni più di me a 18 anni aveva avuto in regalo una Ricoh.
Imparai molto presto a gestire l’esposizione: diaframmi, sensibilità della pellicola, tempi. Era tutto da regolare manualmente! Così a 20 anni acquistai la mia reflex, una Practicka, con ottiche Zeiss. Scattavo di tutto e sperimentavo. Passavo ore a provare la multiesposizione, in cui mi autoscattavo in più punti della stessa foto… un delirio!
Dopo diversi anni, in un viaggio in Inghilterra, comperai la mia prima autofocus. Ero stanco di regolare tutto a mano. Volevo concentrarmi solo sull’inquadratura. Mollai la foto naturalistica e di paesaggio per fotografare persone. Mi piaceva cogliere di sorpresa gruppi di amici, la sera, alla luce di insegne o luce della strada, che parlavano e scherzavano. Adoravo il bianconero con soggetti leggermente mossi che davano l’impressione di aver colto un attimo fuggente.
2.Fotografare per rappresentare o capire la realtà: quale messaggio comunichi
attraverso i tuoi scatti?
Da tempo ho fatto mio il verso di una canzone di Battiato: “…e il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. Cerco di scattare con questo spirito.
Non mi interessa la fotografia documento e tanto meno le foto di denuncia. C’è chi lo sa fare bene. Sento il dovere di provare a rappresentare il bello, la speranza, la gioia e la meraviglia. Se ci riesco? Non saprei, bisogna chiederlo a chi guarda le mie foto.
In ogni caso per me gli aspetti tecnici dell’esposizione e dell’inquadratura sono fondamentali. Come è importante l’attrezzatura, che da sola è fonte di ispirazione. Adoro fotografare montando ottiche vintage sulla mia attuale reflex, una Pentax.
L’idea che qualcuno cinquant’anni fa abbia osservato il mondo attraverso quella lente, magari in un altro paese, visto che spesso le acquisto online, mi emoziona e mi entusiasma. Così, cerco di fare in modo di trasmettere le stesse emozioni attraverso le mie foto che non hanno mai un titolo. Appartengo alla scuola di pensiero di chi non dà titoli alle foto, per evitare di influenzare la visione di chi guarda attraverso una chiave di lettura. L’arte è un’esperienza di incontro tra artista e fruitore. La tua esperienza di vita è come un filtro attraverso cui osservi la realtà o comunque un’immagine. Sei tu che dai senso a ciò che vedi. Se non è quello a cui puntavo io quando ho scattato, ben venga!
3.Quali soggetti ti interessano o attraggono di più e perché?
In questa fase della mia vita mi interessano i soggetti che raccontano i sentimenti e le emozioni della vita delle persone. Possibilmente non statici. Lo still-life tende ad annoiarmi. Mi interessano i volti e le situazioni estemporanee, i luoghi e soprattutto le atmosfere, che si esprimono scoprendo i mille effetti della luce.
Tuttavia, quando realizzi dei ritratti, alle volte le persone non si piacciono. In molti tendono a dare un’immagine di sé al mondo e si sforzano di mascherare parti di sé che non riconoscono o respingono. È il caso delle rughe. Se al volto di una donna togli i segni del tempo, hai tolto tutto il vissuto. Ma se fotografi una donna evidenziando questi segni, dirà che non si piace, nella stragrande maggioranza dei casi. La bellezza di una persona è nelle espressioni e nello sguardo. Le facce in posa, finte, a me non comunicano necessariamente bellezza. La fotografia può essere terapeutica. In un gioco sereno tra fotografo e soggetto si possono raggiungere livelli profondi di intimità che in qualche caso possono rivelarsi liberatori.
4.Come si è evoluta la tua ricerca fotografica?
Come detto, sono della vecchia scuola. Vengo dalla pellicola ed oggi la fotografia è tutta un’altra cosa, perché puoi lavorare all’immagine ben al di fuori della macchina fotografica e puoi imparare a usare lo scatto come base di partenza per un lavoro completamente digitale di trasformazione dell’immagine.
Affronto spesso esercizi tematici, sui generi e soprattutto sulle focali. Monti un 135mm e vai avanti due ore a scattare sempre con la stessa lente. Sei costretto a muoverti, cercare inquadrature, tagli, ti sposti avanti e indietro fin quando non sei convinto. È un’altra cosa dal montare uno zoom, magari ad ampia escursione e scattare centinaia di foto sperando nella legge dei grandi numeri. Questo non fa per me. Ci sono grandi artisti che passano ore a definire un’inquadratura per poi turar fuori un unico magico scatto. Ecco, questo mi ispira molto, anche se essendo un uomo istintivo più che razionale, la ricerca dell’inquadratura non è mai troppo cerebrale, c’è un momento in cui lo scatto parte da sé… Sarà lo zen?
In questa fase della mia vita sto sperimentando l’uso dei flash, una tecnica che nel tempo mi era rimasta estranea ed anche gli effetti che le luci artificiali generano nelle foto all’imbrunire. Diciamo che la luce è un campo molto ampio di ricerca applicata.
5.Quali sono i tuoi riferimenti: ti ispiri a qualche modello in particolare?
Guardo molti fotografi, ma non ne imito nessuno. Non mi interessa. La fotografia per me ha ancora una dimensione in parte ludica. È una pratica che deve darmi piacere. In qualche caso è un lavoro, ma alla fine è un lavoro che se mi piace è meglio!
6.Cosa pensi della postproduzione?
Questa domanda ci porta sul grande e antico tema di quanto la fotografia sia una rappresentazione della realtà. Io penso che in ogni caso essa non sia la realtà ma una sua narrazione. Quando l’elaborazione diventa pesante o esagerata, la narrazione diventa “fabulistica” o favolosa.
7.Cosa pensi dei concorsi fotografici in Italia?
Non ho molto da dire a riguardo.
8.Hai partecipato a qualche concorso?
Non proprio. Quando avevo 16 o 17 anni, durante una gita in Basilicata, durante la pennichella pomeridiana collettiva sotto gli alberi, l’unica reflex disponibile fu lasciata incustodita. Chiesi il permesso di fare qualche scatto e poi la riposi lì dov’era.
Dopo alcuni mesi mio fratello mi disse che mi spettavano dei soldini. Chiesi perché. Mi disse che aveva candidato diverse foto ad un concorso e che si era poi reso conto che la foto che aveva vinto era la mia.
Fu una bella soddisfazione! Tuttavia, tecnicamente dovrei dire di non avere mai partecipato ad un concorso.
9.Cosa pensi dello spazio riservato in Italia alla cultura fotografica? Credi debba
essere subordinata ad altri media comunicativi o pensi che possa avere un ruolo
centrale nell’influenzare gli orientamenti della multimedialità?
I nuovi media, specie quelli di tipo sociale, fanno dell’immagine il proprio mantra. Viviamo un’epoca in cui se non fotografi non esisti, specie se poi quell’immagine non la posti!
Che dire? La fotografia vive una seconda giovinezza. Non male! Tuttavia, in molti casi chi scatta non è il fotografo, ma lo strumento. Il livello di automatismo oggi è fantascientifico, addirittura nel riconoscimento dei soggetti. Mi pare che la vera difficoltà oggi sia il modo in cui le persone vivono tali media, non tanto il modo in cui usano le immagini.
Ciò che in parte mi disturba è l’eccesso di quantità e la scarsezza di qualità. Quando la qualità è alta, l’immagine è autosufficiente.
10.Hai dei progetti futuri o dei temi particolari che vorresti esplorare?
Sì, il nudo. Ma avendo solo 52 anni, ho ancora tanto tempo per sperimentare…
BENEDETTA CAMPANILE