“Cantastorie – Storie immaginarie nascoste dietro le canzoni”
È un piccolo paese. Ci sono cose che in un piccolo paese diventano troppo grandi. Tutti ne parlano a modo loro e le bocche, si sa, ingigantiscono le realtà. Bocche scorreggianti che parlano a vanvera, avanzi di piritera, come meteorismi sconfinati che intossicano l’ambiente. Meglio evitare di alimentarle.
È un piccolo paese. Ma soltanto il fiume lo separa dalla città e il fiume è mio amico.
Qualche anno fa ho acquistato una barca da pesca e, fingendo di andare a lavoro, ogni notte alle tre in punto la prendo e mi sposto in città, dove finalmente posso essere libero di dar sfogo e pace alla mia anima.
Non ricordo quando è iniziata. Forse sono sempre stato così, perché sono sempre stato più curioso dei miei compagni: io le cose non volevo solo capirle ma volevo mangiarle, per capirle meglio, per assimilarle. Ho letto da qualche parte che ci sono tribù nel Sudamerica che mangiano addirittura i propri cari, perché soltanto il metabolismo è in grado di mostrare la piena verità di ogni singola molecola ingerita. E anche io forse cerco la verità.
Sin da piccolo volevo comprendere fino in fondo l’origine e il meccanismo di tutto ciò che mi circondava. Volevo vedere cosa i tronchi degli alberi avevano visto in cento o mille anni di vita, e volevo vederlo direttamente, proprio io, con questi occhi. Volevo sapere tutto quello che la terra della campagna o la sabbia della spiaggia o l’erba del giardino trattenevano nel loro misterioso ostinato silenzio. Volevo diventare ogni cosa e tornare poi ad essere me stesso. E d’ogni cosa cercavo l’anima, perciò sono sempre stato un avido divoratore soprattutto di pesci, che nuotano liberi e fanno cose che noi umani non possiamo neanche immaginare. E di carne. Perché ciascun animale ha come noi dei genitori, una famiglia biologica, una storia… Anime perciò più complesse di quelle degli oggetti “inanimati”. Anime che volevo possedere e fare mie. E, si sa, chi mangia una creatura ne mangia l’anima.
Mi piacerebbe che il mondo intero diventasse carne perché la mia anima ha sete di conoscenza, di assimilare l’intero creato per dare uno scopo a questa fugace esistenza.
Da piccolo a tavola ovviamente mangiavo di tutto, eppure non ero un bambino grassoccio, anche perché vomitavo spesso. E quella era una cosa che odiavo, sia perché mi faceva schifo il sapore che mi lasciava in bocca e sia perché mi impediva di assimilare parte dell’essenza e della storia di quello che avevo mangiato. Ho provato anche a rimangiarmi quella materia gettata fuori così crudelmente, ma niente da fare: la rigettavo di nuovo fuori. Il mio organismo certe volte è imperterrito. Un po’ come quelle macchinette automatiche delle sigarette, che quando sono rotte tu inserisci gli spiccioli ma te li rigetta e non ti dà le sigarette. Dopo un po’ ho capito che quando vomitavo non potevo avere le mie sigarette e la saggezza dell’età mi ha insegnato l’arte di rassegnarmi. Ma speravo sempre che non succedesse. Non mi piacciono le cose rotte.
Quando ero piccolo i miei genitori scherzavano su questa mia abitudine di far passare tutto dalle mie fauci, ma poi, quando iniziai a tirar fuori i primi denti, notai che cominciavano a preoccuparsi sempre di più. Io non capivo perché non fossero in grado di capirmi: erano i miei genitori!
Pian piano scomparvero da casa tutti i fogli di carta, i pezzi di gomma… addirittura le bucce delle patate o dei frutti che sbucciavamo a pranzo non erano più nella spazzatura… Capii che ce l’avevano con me. Ma non dicevo nulla.
Verso i quattro anni ho iniziato ad andare regolarmente in ospedale. Generalmente per intossicazione ma qualche volta anche perché sbagliavo le dimensioni o non masticavo bene (perché, ragazzi, la masticazione è importante!) e quindi mi ricoveravano e attendevano che io facessi uscire in qualche modo ciò che avevo ingerito. Ogni tanto sono stato anche operato, quando proprio non si poteva fare altrimenti.
L’ospedale per me era un posto magico: mi permetteva di continuare a sperimentare, conoscere, cercare… senza per questo dover morire. Perché io non volevo morire, volevo vivere. Più degli altri, più di tutti. E meglio di tutti. L’ospedale era quindi la mia eterna salvezza, la mia gioia, la mia pace.
Un altro posto che amavo era la scuola. Avevo voti altissimi e imparavo un sacco di cose, anche se i libri non mi bastavano mai e cercavo sempre di approfondire a casa, facendo pratica nel miglior modo che conoscevo. Però i miei genitori, invece di apprezzare la mia fame di conoscenza, la mia voglia di sapere e la mia dedizione, erano sempre più nervosi. Sapevo che ce l’avevano con me ma cercavano sempre di non farmelo notare e litigavano tra di loro. Mamma faceva sfuriate dando la colpa a papà che faceva altrettanto con mamma. Io, per non sentirli, andavo a giocare in cortile oppure più spesso andavo a bere litri e litri d’acqua del nostro fiume e guardavo le nuvole. Mi affascinavano tantissimo le nuvole, perché sembrano qualcosa di solido e persistente e invece da vicino non sono neanche bianche o grigie o nere o colorate come le vedi da questo lontanissimo pianeta. Anzi, quando le nuvole sono intorno a te, tu non le vedi nemmeno, non vedi niente. Ed è tristissimo. Ti passa la fame.
Invece lassù le nuvole sono bellissime, sembrano tante e sempre diverse. Ero certo che solo andando fin lassù avrei potuto conoscerle davvero. Mi chiedevo quanto fossero morbide lì, nella loro atmosfera: forse erano come meringhe o ovatta o zucchero filato o gelato… Chissà. Chissà se si possono masticare, le nuvole, o si devono semplicemente succhiare o inalare o…
Io le nuvole volevo comprarle tutte, tutte quante così come le vedevo; ma capivo che non c’era modo, perché le nuvole non si possono comprare, non possono essere nostre in alcun modo. Capivo perciò di non poterle possedere e questo aumentava il mio desiderio.
Ero certo che tra i loro diversi sapori e consistenze avrebbero nascosto infinite storie dei loro infiniti viaggi tra la terra e il cielo, visto che ho letto in un libro che le nuvole si nascondono proprio qui, sulla terra, dentro il nostro fiume oppure il mare o i laghi. Poi, con le loro ali invisibili, salgono fino al cielo e diventano vere nuvole. Ad un certo punto però lassù si crea sovraffollamento e si comincia a litigare per i propri spazi: alcune più pacifiche si tuffano subito, soavi e gioiose, e tornano quaggiù in svariate forme; a volte il sovraffollamento diventa però davvero esagerato e lì vedi le nuvole più violente che iniziano ad arrabbiarsi, diventano sempre più scure in volto e come tutti quelli troppo incazzati per ragionare fanno delle stupide battaglie tra loro. Chi perde la battaglia viene gettato giù rabbiosamente dai pochi che si guadagnano la possibilità di rimanere un altro po’ e che non sanno che in realtà non possono mai restare lì per sempre. Perché nulla è eterno, nulla è per sempre. E spero un giorno di potermi far divorare dalle nuvole per insegnarglielo, perché è evidente che loro proprio non lo sanno.
Ad ogni modo, sia le nuvole più pacifiche che si tuffano quaggiù dolcemente di loro spontanea volontà e sia quelle che vengono brutalmente gettate sulla nostra terra, tornano poi sempre al loro fiume o al loro mare o al loro lago prima di ritornare nuovamente ad esser nuvole. Ed è solo qui, quando diventano fiume o mare o lago, che io posso finalmente berle e tenerle per me.
Ogni volta che le liti tra i miei genitori cessavano io promettevo a loro e a me stesso, come Zeno Cosini per la sua “ultima sigaretta”, che sarebbe stata la mia ultima volta. Dicevo sempre che non l’avrei più fatto. Quando me lo chiedevano qualche giorno dopo dicevo ancora “No, tranquilli, non l’ho più fatto”. Non l’ho più fatto, dicevo. Invece non era vero. Non potevo fermarmi. Era il mio rito dell’esistenza.
Questo traballante e imperfetto equilibrio si spezzò verso i miei dodici anni, quando i miei, oltre a litigare tra loro per stabilire di chi fosse la colpa della mia diversità, iniziarono ad incolpare anche me, non per quello che facevo – che non hanno mai avuto il coraggio di ammettere – ma perché non avevo amici. Tutti i compagni mi evitavano e io evitavo loro. Non mi servivano. Io da solo potevo raggiungere tutto il sapere che tutti loro messi insieme non avrebbero mai potuto raggiungere, perché non sapevano come fare. Che stolti! Si tenessero la loro amicizia, io intanto diventavo Dio.
Solo al liceo questa cosa di non avere amici iniziò un po’ a pesarmi. Precisamente il giorno in cui in classe arrivò una ragazza nuova, con un paio di occhi azzurri di quelli che non ti lasciano fiato in gola. Non avevo mai provato nulla del genere. Volevo conoscerla, capirla, possederla. Ma non avendo fiato in gola non sapevo neanche da dove cominciare una conversazione che sembrasse intelligente. Per fortuna andava malissimo nelle materie scientifiche, per cui un giorno balbettando le dissi che potevo aiutarla. Lei sorrise. Quegli occhi azzurri sorrisero e io lo vidi davvero. Lo vidi davvero quel magico tubo trasparente che partiva da lei e si insinuava nei miei polmoni sanguinanti. Lo vidi davvero.
Si convinse e per un po’ ci siamo incontrati per studiare a casa sua ogni venerdì pomeriggio. Dopo qualche settimana, non so come, ma riuscii a conquistarla e fu la mia prima fidanzata. A me piacevano i suoi occhi ma anche la sua capacità di tranquillizzarmi, di far sembrare quasi normale il mondo intorno a noi. Quella che all’inizio mi aveva tolto il fiato, pian piano divenne completamente il mio fiato stesso. Non c’era alcuna logica in questo ma imparai, con quel tubo trasparente, a respirare attraverso di lei, con la sua semplice presenza e il suo sorriso.
Finché non la trovai abbracciata ad un tizio biondo vestito da soldato. Rimasi scioccato: non capivo proprio cosa ci trovasse in lui. E non capivo proprio cosa ci trovasse di bello una persona ad indossare una divisa così omologante, con la quale andare ad uccidere altre persone, così, solo perché qualcuno te lo ordina, senza neanche mangiarle per sapere chi erano, cosa facevano, qual era il loro carattere, i loro sogni, le loro ambizioni… Niente: uccisi per niente. Uno spreco di intelligenza e risorse che non ho mai capito.
E odiavo non capire. Così mangiai entrambi, cominciando dai suoi occhi azzurri e terminando con la divisa di lui. E decisi di non scambiare più il mio apparato respiratorio e cardiocircolatorio con altri individui. Immeritevoli individui privi di scrupoli.
Dissi ancora una volta che non l’avrei più fatto.
Invece ci ricascai all’università, ma stavo già frequentando la specialistica in neurologia, per cui erano ormai trascorsi diversi anni durante i quali posso giurare che davvero non l’ho più fatto.
Questa nuova ragazza non aveva gli occhi azzurri ma riusciva ad illuminare la stanza come se fossero stati comunque chiari, anzi più chiari degli occhi chiari (e se pensate che io stia esagerando è solo perché non l’avete mai incontrata). Era una specializzanda in gastroenterologia ed era di origini francesi. Pensai subito che eravamo fatti l’uno per l’altra. Ma non era così. Mi lasciò per un paziente e non seppi ancora una volta trattenermi. Sono una persona banale, prevedibile. Non so come mai nessuno mi abbia ancora scoperto, perché seguo sempre la via principale della logica e mai le disconnesse stradine confuse dell’istinto. Fatto sta che la mia confusione e il mio “bulversamento” (si dice così? Non ero semplicemente “sconvolto” ma completamente “bouleversé”, come diceva lei) mi portarono a divorare ogni organo di entrambi e di lui soprattutto quelli toccati dalla malattia, tanto che ebbi una favolosa illuminazione e qualche tempo dopo il mio primario mi ha premiato perché ne ho scoperto le cause e ho dato il via alle sperimentazioni per trovarne la cura.
Dopo questa ulteriore disavventura però davvero decisi di chiudere con le donne. Intanto diventavo sempre più bravo nel mio lavoro, finché un giorno però ho esagerato… ma questa cosa non voglio raccontarvela perché mi fa ancora male: mi ha costretto a cambiare città e lavoro e tornare qui, in questo piccolo paese, nonostante in questo posto le bocche emettono solo meteorismi che ingigantiscono le piccole cose.
Certo, tutta la conoscenza che ho assimilato negli anni mi ha insegnato a difendermi da chi vorrebbe arrestare il mio modo di essere. Adesso ho cinquantotto anni, ho la mia barca e ho la mia ossigenante fuga notturna, per cui ho imparato a gestire il mio bisogno di conoscenza alimentandolo fuori dal perimetro entro il quale costringo la mia esistenza.
Non pratico più il mio lavoro di medico ma vivo di pesca e di ciò che mi procuro la notte. L’unica persona con cui parlo è la tabaccaia qui all’angolo, dove quotidianamente alla stessa ora acquisto le mie sigarette (e so che è sempre la stessa ora perché lei non perde occasione di farmelo notare con una battuta volgare che puntualmente ignoro, ringraziandola, pagando e fiondandomi via per non dover scambiare altre parole con il maledettissimo genere umano, che pur cercando di assimilare dentro me stesso non riesco ancora a comprendere).
La gente del paese pensa che il mio dannato vizio siano queste sigarette, che fumo continuamente quando sono per strada. La gente del paese parla senza sapere niente. Le sigarette sono per me un diversivo, un aperitivo, una pausa dal nulla che ci attanaglia, una riflessione sul qualcosa che potrebbe esserci. La prima sigaretta della giornata la fumo quando è ancora notte, sul ponte che si affaccia sul nostro fiume, prima di andare sulla barca alla ricerca di persone malvagie da poter divorare. La seconda la fumo dopo averle digerite, perché la nicotina amplifica i miei sensi e mi aiuta a capire fino in fondo il loro modo di essere e di pensare. La terza la fumo per distendere i pensieri quando ho capito fino in fondo il loro comportamento e non riesco ad evitare di odiarle e quindi odiare me che ormai le custodisco nella mia anima e devo tenerne a bada gli impulsi più deleteri. La quarta sigaretta la fumo appena spenta la terza, quando non trovo soluzione alla dannazione di questo mondo. Poi arriva la quinta, che fumo appena spenta la quarta, per ricordarmi che c’è ancora tempo per fare, dire, pensare, fumare… E c’è ancora fiato per urlare. E materia per ricominciare. Così nel primo pomeriggio rientro con la mia barca e affogo i miei pensieri in un bicchiere, accompagnato di solito dalla ventitreesima sigaretta, andando poi a riposare contento per il fatto che adesso vivo per uccidere chi vuol uccidere la vita. Ho uno scopo che amo e mi fa stare bene. Questo mi basta.
Trentasettesima sigaretta e dormo davvero, fino a questa notte, in cui tutto ricomincia.
Quello che posso dire, per concludere, è che io ho mangiato e mangio di tutto di questa terra e la mia anima è più grande di tutte le vostre messe insieme, però mi rendo conto che ancora oggi non ho le risposte. E continuo a cercare.
DORIANA TOZZI