“Cantastorie – Storie immaginarie nascoste dietro le canzoni”
Prima di quel giorno lui era un uomo. Dicono che fosse un uomo mediocre, con una vita insignificante e come tante altre. Ma comunque un uomo.
Poi tutto cambiò.
Era solito svegliarsi quando era ancora notte. Beveva un bicchiere di latte con due gocce di distillato per riscaldarsi, poi andava a lavorare e non parlava quasi con nessuno. I suoi vestiti erano sempre gli stessi, sempre più lerci, logori, scuriti da unto e usura.
A volte si rendeva conto di non bastare a se stesso ma altre volte, vagando per le strade ancora buie mentre si recava a lavoro, gli capitava di incrociare per sbaglio sguardi dai pensieri sfumati, fluttuanti; sguardi schivi di piccoli occhi a disagio, dentro i quali gli pareva rintracciar pensieri che sentiva propri, sensazioni che gli appartenevano.
Di questi episodi faceva la sua forza. Sapeva che c’erano altri esseri come lui e attendeva solo il momento giusto per ricongiungersi con loro. Continuava a ripetere “presto sarò chi sono… presto sarò chi sono”.
Intanto schivava a fatica l’ostilità della gente comune e quei commenti di chi non poteva capirlo; si difendeva con la prosopopea del suo mastodontico silenzio contro l’ipocrisia melensa di chi provava pena per lui. Cercava di ignorarli ma ogni volta erano lame taglienti che, anche solo sfiorando la sua pelle nuda e inerme, laceravano la sua carne facendo sgorgare il suo malessere dalle fiamme di un camino solitario, quello in cui bruciava legna e rabbia e cenere e follia.
Cominciò a raccogliere foglie cadute e a scriverci sopra parole che per lui rappresentavano pensieri positivi: “Pioggia”, fu la prima parola. “Sorriso”. “Abbraccio”. “Acqua”. “Pace”… Per scriverle usava la cenere del camino bagnata con quello che capitava: vino, sputo, sudore, sangue… qualunque liquido che permettesse al nero della cenere di imprimersi sulle sfumature delle foglie. Poi le inchiodava al muro e passava ore ed ore a contemplarle.
Nella piccola stanza lignea che definiva “casa”, capitava a volte che in silenzio, nel buio, mentre la sua scura sagoma veniva illuminata fiocamente dall’altalenante bagliore del fuoco danzante, una lacrima scendeva accarezzandogli il volto e su di lei i riflessi delle fiamme scintillavano come esplosioni.
“Non appartengo a loro” diceva.
Poi asciugava le lacrime con le mani ruvide e sporche di fango e si ripeteva che c’erano altri come lui, che non era l’unico estraneo.
Stanco di aspettare, decise di cominciare la sua missione per trovare tutti coloro in grado di capire il suo linguaggio e combattere il male atavico del mondo: l’indifferenza.
“Presto sarò chi sono”. Ormai ne era convinto.
Doveva cercare i suoi simili, convincerli che tutti insieme avrebbero potuto vivere e anzi restare vivi e raccogliere quello che resta di una civiltà votata alla distruzione: voleva ricostruire l’umanità, darle nuovo ossigeno per salvarla.
Finalmente giunse l’alba di quel giorno fatidico.
Il cielo si tinse di un grigio sempre più chiaro, quasi cieco, senza altro colore. Il paesino in cui viveva iniziava a svegliarsi e la sua gente pian piano faceva sentire il proprio vociare nelle strette vie che solo poco prima erano completamente assopite, abbandonate nel limbo dell’oscurità, senza spazio né tempo.
Lui aveva già deciso tutto quello che sarebbe successo dopo.
Potevano superare la sua prova oppure non superarla. Non c’erano compromessi o mezze misure. E avevano a disposizione solo il loro istinto. Nessuna preparazione. Nessuna logica.
Quando fallivano, lui aveva cura di nascondere ogni traccia di ciò che succedeva dopo. Non si era mai sentito così vivo, così libero. Sentiva di fare la cosa giusta perché era quello di cui l’umanità aveva bisogno.
Quando ebbe finito rimase solo nella sua stanza lignea, quella che definiva “casa”. Nello specchio aveva cercato di rintracciare più volte quello sguardo antico nei suoi occhi, quegli incroci di pensieri che sfuggivano alla logica della gente comune ma che luccicavano di purezza. Erano giorni ormai che in quello specchio non riusciva più a trovare nei suoi occhi alcuna umanità ma solo solchi che il sudore, come rugiada, si apriva tra il fango e l’unto. Tutta quella oscurità nascondeva i suoi intenti puri. Così lo scrisse su una foglia: “Purezza”.
La solitudine cominciava a prosciugare le sue vene e lui cominciava a sentirsi sempre più arido.
Una mattina si alzò e decise di raccogliere quello che restava intorno a sé: la cenere, i pezzi di case, di vetri, di mobili, di abiti e di vite che furono. Voleva che tornassero alla vita e perciò le riportò al fiume.
Tanta era la fatica ma tantissima era la sua determinazione a restare vivo, raccogliendo quello che restava anche di se stesso, perché non poteva fermare la ricerca dei suoi simili: “presto sarò chi sono!”.
Solo alla fine, quando intorno a sé non vide altro che erba bruciata, si accovacciò su una riva del fiume, in un posto tranquillo. E si addormentò.
Da quel momento dormì per più di un secolo e quando si svegliò le sue mani e le sue braccia erano diventate rami nodosi e massicci. La sua pelle era ormai corteccia e in testa i suoi crespi capelli era diventati rigogliose foglie oscure. Ma se le si guardava bene, controluce, si poteva leggere su ciascuna una parola diversa: “Pioggia”, “Sorriso”, “Abbraccio”, “Acqua”, “Pace”, “Purezza”…
Oggi intorno all’Albero Oscuro (questo il nome che gli abitanti del posto hanno dato a quell’arbusto tanto arcano) sorge un nuovo paese, e non molto distante dall’Albero Oscuro c’è un ponte mitico, che congiunge dolcemente le due sponde di un fiume ritenuto magico: leggenda narra, infatti, che chiunque si affacci su quel ponte e inizi ad ascoltare in silenzio i racconti del fiume, sia in grado di comprendere il linguaggio dell’universo.
Eppure nessuno fu mai in grado di sentire le urla silenziose imprigionate nell’ugola ormai lignea di un albero poco distante da quel ponte, l’Albero Oscuro, le cui uniche parole percepibili erano nascoste nello strato più profondo delle sue foglie.
DORIANA TOZZI