Franco Cerri è l’orgoglio della chitarra jazz made in Italy: conosciuto in tutto il mondo, ha suonato con i più grandi nomi del jazz mondiale e ha fatto scuola a numerosi musicisti che hanno iniziato a suonare seguendo il suo particolare stile. Un artista disponibilissimo e dalla simpatia sopraffina che abbiamo avuto l’onore di intervistare per parlare della sua lunga carriera, del suo approccio con la chitarra e dell’istruzione musicale in Italia.
Franco è un onore parlare con lei, per cui ci fa piacere cominciare questa chiacchierata proprio dal principio, da quando è entrato nel mondo della musica per cambiarne il corso grazie al suo stile personale. Gli anni in cui ha iniziato a suonare lei erano gli anni della seconda guerra mondiale, un periodo difficile per l’Italia come in generale per il mondo. Come ha vissuto quell’epoca e come ha iniziato a dedicarsi alla musica?
Nel ’39, terminata la terza media mio padre mi chiese con una grande timidezza se le mie intenzioni fossero quelle di continuare a studiare, perché in casa, invece, serviva che si andasse a lavorare. Quindi ho trascorso i primi anni della guerra facendo i lavori più diversi, dal muratore all’ascensorista. Fu solo nella prima metà degli anni ’40, dopo aver ricevuto, sempre da mio padre, in dono la mia prima chitarra – costata 78 lire! – che potei avvicinarmi alla mia grande passione: la musica.
Da autodidatta cercavo soprattutto il suono “perfetto” e le prime composizioni nascevano in una maniera un po’ bizzarra: non conoscendo le note, cercavo posizioni in cui appoggiare le dita, ascoltando dei suoni che mi piacessero, dopo di che telefonavo ad un mio amico pianista che dava un nome ai miei suoni, alle mie melodie e ai miei accordi.
Lungo la sua memorabile carriera, oltre a diventare lei stesso un artista noto a livello internazionale, ha anche potuto suonare al fianco di alcuni tra i più grandi del jazz. Ce n’è stato qualcuno con cui ha avuto maggior feeling dal punto di vista musicale?
Ho iniziato con Gorni Kramer, con il quale siamo anche diventati grandi amici e quindi diciamo che con lui c’è sempre stata una particolare sintonia. Ricordi particolarmente importanti però li ho anche del periodo in cui ho suonato con Django Reinhardt: era il 1949, io suonavo da pochi anni e non mi sembrava vero che mi stesse accadendo tutto questo, lo vivevo come fosse un sogno.
È diventata poi celebre l’espressione “suonare alla Cerri”, per il suo particolare modo di suonare la chitarra. Pensa che la singolarità del suo stile sia dovuta alla maniera tutt’altro che accademica con cui ha iniziato a suonare questo strumento, come ci raccontava prima?
Mah, penso di sì. Il metodo “alla Cerri” forse si è potuto sviluppare proprio perché, essendo autodidatta, non conoscevo gli schemi tradizionali accademici, che indicano al musicista la strada con cui approcciarsi allo strumento, per cui ho potuto sviluppare un modo più personale, nel bene e nel male. Credo, però, che molto si debba anche al fatto che ho avuto la possibilità di suonare con musicisti di grande carisma, da Dizzy Gillespie a Billie Holiday, da Chat Baker a George Benson, Lee Konitz, i Modern Jazz Quartet e molti altri ancora, con i quali ho cercato di sviluppare i suoni che più mi rispecchiavano, fino a giungere a questo modo di suonare.
Ma secondo lei, lo studio accademico quanto conta nella formazione di un musicista e quanto l’Italia stimola l’educazione musicale?
Lo studio accademico, secondo me, è una parte fondamentale del percorso del musicista: posso dirlo perché personalmente mi è mancata molto agli inizi della mia carriera. È importante conoscere le regole della propria arte, per poi farne ciò che si crede e soprattutto che si sente dentro.
In Italia, invece, rispetto ad altre nazioni mondiali ma anche della nostra Europa, secondo me è data scarsa importanza allo studio della musica. Credo che le istituzioni possano e debbano fare molto di più per permettere ai nostri studenti di imparare l’arte musicale anche nelle scuole dell’obbligo.
DORIANA TOZZI