La musica per Franco Ricciardi non è intesa come successo ma come missione. Per lui chi fa musica ha un obbligo morale verso chi ascolta: il pubblico, il suo pubblico, viene coccolato durante tutto il tempo dei suoi concerti, che ti catapultano in uno spettacolo in grado di offrire una carica emozionale sempre in crescendo e in cui si apprezza tanto anche la band che lo accompagna. Tra urban music e riff di chitarre elettriche, quello di Franco Ricciardi è un sound che ti trascina appassionatamente lungo ogni nota e lui non manca di instaurare sempre con il suo pubblico un rapporto di intesa e riconoscenza.
Oltre alla musica, Ricciardi si dedica da sempre anche al teatro, altra grande sua passione, che gli permette di avere un contatto ancor più ravvicinato con il pubblico che ama. Infatti, dopo aver pubblicato 167 – dall’aula al palcoscenico, ha portato nei maggiori teatri italiani Je a Teatro con oltre trenta date, tutte sold out, di cui è autore e sceneggiatore. Il tour nei teatri ritornerà a novembre 2024 fino ad aprile 2025.
La ricerca e lo studio nella musica per Ricciardi è fondamentale, l’unico vero motore che lo spinge a fare bene è la curiosità e il non attaccamento al passato, come ci racconterà lui stesso in questa intervista.
Mi aspettavo di trovarlo con gli occhiali da sole, e invece era lì seduto con gli occhi e lo sguardo libero, e ovviamente con cappellino e foularino al collo. Mi ha accolto da subito con un sorriso e un “Ciao cara, come stai?” per cui ho potuto tirare un sospiro di sollievo confermando che non è solo un artista straordinario ma anche una persona cordiale, che si concede senza troppi freni anche ai numerosissimi fan che gli hanno chiesto una foto proprio lì davanti al camerino. Si nota subito che c’è tanto amore e passione in quello che fa, forse perché, tra le altre cose, appartiene a quel meraviglioso ceppo di partenopei geneticamente predisposti alla musica.
“Scampia!!!” è l’urlo che precede il brano 167 che canterà da lì a poco sul palco. Ed è proprio da lì, da Scampia, che iniziamo la nostra chiacchierata.
Franco, qual è stata la primissima reazione che hai avuto alla notizia del crollo in una delle Vele di Scampia?
Stavo facendo un concerto. I miei concerti richiedono un “time code”, ovvero un live senza pause, ed è stato solo alla fine, quando sono entrato in macchina per andare via, che mi hanno comunicato quanto era accaduto. “Se nè carut’a vela” (“È crollata la vela”, ndr) mi hanno detto, per cui mi precipito lì da Pietravairano, dove mi trovavo. In quegli istanti ho avuto le stesse sensazioni di quando ti succede qualcosa di brutto a casa. Un guaio. Arrivo, mi riconoscono e mi permettono di farmi accedere al luogo. Lì però ho fatto un passo indietro, mi sono detto che a nulla sarebbero servite le polemiche. Rientro a casa e il giorno dopo prendo lo scooter e ritorno per abbracciare la gente della Vela. Uno di loro in particolare guardandomi mi dice “Franc’ aiutace”. Da lì è partita la campagna di raccolta di beni primari. La musica qui gioca un ruolo fondamentale, è importante, serve a comunicare dei messaggi precisi ed è terapia: la musica ti fa stare bene.
Sono campana anche io, ma la lingua napoletana è tutt’altra cosa. Azzardo la pronuncia del tuo ultimo album, Je, detto bene? Che album è?
Sì, l’hai pronunciato bene. Je song’ Je (“Io sono io”, ndr) sottolinea sorridendo. In quest’ultimo lavoro ho messo quello che sono, quello che sono stato da sempre. Sono onesto con me stesso e molto autocritico, penso molto a quello che vado a fare. Non sono un impulsivo. Amo ascoltare tutti, e tra i tanti amo soprattutto ascoltare le storie di chi non è costruito ma è autentico, amo le persone che senza filtri si raccontano, e mi piace raccogliere quello che arriva in maniera del tutto naturale. Stesso discorso per la musica. Ascolto musica a 360 gradi. Non vedo chi è l’artista o il genere, io cerco nelle storie e nella musica le emozioni.
Napoli e riscatto. Quando si parla del successo di artisti e musicisti che provengono dalla periferia si finisce spesso a parlare di “riscatto”. Un tuo pensiero sull’argomento.
Io penso che ci sia bisogno di più leggerezza, senza piangersi troppo addosso. Ma poi, esattamente, riscattarsi da cosa?
Dal 2011 hai dato un taglio diverso alla tua musica. Con il producer Rosario Castagnola avete posto un accento marcatamente urban sui brani che, sia per il sound che per i testi, arrivano davvero a un pubblico vastissimo tanto è vero che hai già ricevuto due certificazioni di Disco d’oro (per Primmavera e Treno), due David di Donatello e un Nastro d’Argento. È questa, quindi, la strada giusta da seguire?
Credo che la strada giusta sia la curiosità. La mia fortuna è quella di essere curioso, di non innamorarmi mai solo delle cose che ho fatto in passato. Non amo ingabbiarmi nel mio Io, mi metto sempre in discussione e sono sempre alla ricerca per poter creare canzoni sempre più belle.
E la ricca discografia che ci ha regalato in questi anni gli dà sicuramente ragione.
TALIA MOTTOLA