Sono passati dieci anni dall’esordio dei C’mon Tigre, il misterioso duo intorno a cui ruotano di volta in volta numerosi artisti diversi: musicisti, registi, fotografi, illustratori e chi più ne ha più ne metta. Sin da quell’esordio eponimo, la stampa internazionale ha puntato gli occhi su questo variopinto collettivo di base a Bologna, che si è fatto sin da subito apprezzare per la sua proposta musicale innovativa, libera e cangiante, che prende le mosse da spiagge elettro-jazz avventurandosi di volta in volta verso derive lontane e spesso inaspettate, come accade in svariati episodi del loro quarto lavoro su lunga distanza, Habitat.
Proprio di questo e delle mille sfumature del loro progetto abbiamo parlato in questa intervista che parte dal loro ultimo LP per cercar poi di sbirciare poi il più possibile nel dietro le quinte di questa formazione così singolare e… modernissimamente retrò.
Ciao “tigri”. Celiamo anche noi i vostri nomi per concentrarci piuttosto sulla vostra musica, di cui c’è davvero tanto da dire. Partiamo da quest’ultimo disco, Habitat, che sembra prendere le mosse da alcuni spunti già presenti in Scenario, il suo predecessore, per poi spingersi su scie più luminose. È solo una mia impressione o davvero c’è stato l’intento di realizzare un album con atmosfere più positive rispetto al passato?
Sì, è vero, avevamo cominciato ad avere un’idea di un lavoro di questo tipo già durante la scrittura di Scenario. Sono stati due dischi composti a breve distanza di tempo tra loro, ma radicalmente diversi. Habitat è nato pensando proprio a un luogo di benessere, uno spazio privilegiato che fosse parzialmente distante dalla realtà, libero e immaginifico. L’impasto con le sonorità brasiliane è stato costante, perché la vitalità di quel tipo di musica ti porta verso atmosfere più positive, ma non solo: Goodbye Reality, per esempio, è un vero e proprio tributo a Chico Buarque.
Ma parliamo proprio del concept di questo disco. Da dove ha avuto origine l’idea iniziale che gli ha fatto prendere concettualmente le distanze dal precedente?
Ci siamo immaginati uno spazio di benessere, un luogo quasi fantastico dove stare, prendersi cura di sé e di ciò che ci circonda; un luogo pieno di energia, colori, vitalità. Questo è stato il tema di base da cui siamo partiti, era quello che sentivamo di esprimere, di cui avevamo bisogno dopo i nostri precedenti lavori.
Per quanto sempre molto sperimentali e oblique, le sonorità di Habitat si alleggeriscono, aprendo le braccia verso ascoltatori di vario tipo, anche diversi da quelli che si erano già avvicinati alla vostra musica in passato. Quali sono oggi, quindi, le caratteristiche che secondo voi ha il vostro “ascoltatore-tipo”?
Habitat si presta ad un ascolto in qualche modo più facile, e per noi in questo caso è sicuramente un’accezione positiva. Ci piace pensare che questo ascolto trasporti energia e perciò confidiamo in un ascoltatore pronto e propenso ai cambi di scena, che si lasci andare senza pensarci troppo su.
Tra i nuovi brani ce ne sono alcuni in cui vi siete spinti fino a territori prima davvero difficili da immaginare (penso ad es. a Sento un morso dolce, il singolo con Giovanni Truppi, stupenda e insolita commistione dei vostri rispettivi mondi artistici). C’è stata una differenza di approccio alla composizione e costruzione dei brani?
Considerando che diamo alla musica un ruolo primario anche in fase di prima scrittura, e che la parte testuale e vocale arriva una volta che la musica ha un suo senso, l’approccio è stato più o meno lo stesso, una volta che avevamo il brano strumentale lo abbiamo proposto a Giovanni. Non avevamo mai lavorato in italiano prima di Sento un morso dolce. A Giovanni è piaciuta molto l’idea di scrivere il testo e di cantarlo. Inoltre a noi piace molto quella leggerezza di spingersi in territori inesplorati, ci diverte davvero molto farlo.
Meravigliose poi le trame di The botanist, il singolo in cui collaborate con Seun Kuti. Ci spiegate meglio la metafora del titolo?
Grazie per il complimento. Nel brano si parla della cura di sé, di curare la propria mente come si curano le piante in un giardino, di nutrirla, piantare nuovi semi e farli germogliare, di mantenerla sempre viva. È un equilibrio importante e prezioso da mantenere, riuscendo allo stesso tempo a recepire gli stimoli esterni e farne tesoro.
Trovo molto particolari anche le atmosfere cristalline e sospese di Keep watching me, con Arto Lindsay. Qui sembra ci sia stato principalmente un lavoro di sottrazione a livello di arrangiamenti. Qual è l’idea alla base di questa composizione?
Arto Lindsay è un riferimento per la musica sperimentale, minimale se vuoi, per cui il concetto di sottrazione è molto attinente. L’idea è stata di concentrarsi sulla dinamica dei suoni, il brano è una ballata minimale appunto, chitarra e xilofono che fanno da tappeto alla delicatezza della sua voce. Da qui, da questa parte quasi onirica, esplode nel finale della coda strumentale un improvvisato che certamente si ispira allo stile di Arto, dissonante ma sempre con un senso.
La stessa cura che mettete nelle trame musicali la riservate di solito anche agli aspetti visivi del vostro progetto, come ad esempio i videoclip. Nel caso di quest’album, quello che accompagna The botanist si fa particolarmente notare per quei colori accesi che si stagliano su fondo nero creando un universo che ben si lega ai suoni e da essi sviluppa una storia ipnotica tra due personaggi che sembrano la versione psichedelica di Adamo ed Eva. Cosa ci potete raccontare di questo video?
Il video di The botanist è diretto da Jules Guerin, un animatore francese di base a Marsiglia. Abbiamo una specie di lunga lista di artisti visuali con i quali vorremmo collaborare, e in questa lista c’era anche lui. Lo seguivamo da un po’ e The botanist è stato il primo brano adatto per poter entrare in contatto e lavorare finalmente insieme.
Il suo tratto, lo stile ed i colori legano perfettamente con la musica e con il tema della canzone. I concept partono dall’idea di dar vita a qualcosa che abbia una propria identità, un senso oltre la nostra musica, motivo per cui abbiamo sempre collaborato con grandi autori che hanno diretto dei veri e propri film d’arte e d’animazione. È un concetto di produzione più affine al mondo del cinema che del videoclip.
Infatti, e tra l’altro questo fa capire che per voi le collaborazioni con gli altri artisti non sono semplicemente un contorno ma sono parte integrante del vostro stesso progetto. Tra i tanti artisti diversi con cui avete collaborato ce n’è stato uno che più degli altri ha cambiato in qualche modo il vostro modo di concepire la musica?
È vero, abbiamo sempre considerato C’mon Tigre come un collettivo, anzi come una famiglia allargata, di conseguenza gli incontri fatti finora sono stati molti, alcuni molto intensi. Possiamo dirti però che tutti ci hanno cambiato a loro modo, ognuno in maniera diversa, non ce n’è stato uno che l’abbia fatto più degli altri.
Una “famiglia allargata”, come dici tu, che quindi inevitabilmente fonde le diverse essenze tra loro. Sarà questo uno dei motivi per cui la vostra musica è da sempre ricca di contaminazioni tra culture, non soltanto in senso musicale?
Contaminare per noi significa arricchire, sotto ogni punto di vista, allargare la propria visione, con la musica cerchiamo di mescolare tutto quello che ci ispira per arrivare a costruire ciò che abbiamo in mente, un’idea molto personale del suono, della musica e dell’immagine. Non avrebbe alcun senso limitarsi, non guardarsi intorno, non condividere le nostre cose ed attingere da quello che ci viene offerto dagli altri, per cui la contaminazione è l’essenza stessa della nostra musica.
Ho avuto il piacere di vedervi in concerto a marzo, grazie alla ricca programmazione dell’Eremo Club di Molfetta (BA). Il vostro tour però proseguirà fino ad agosto. Cosa accadrà sul palco in queste prossime date?
Già dalle prime date, quindi compreso quella di marzo in cui ci siamo incontrati, abbiamo lavorato agli arrangiamenti in modo che il disco in concerto fosse suonato il più possibile, come avrai notato, rendendo la musica ancora più viva ed energica, spingendo sulla parte ritmica brasiliana e perciò utilizziamo percussioni e strumenti acustici. Vogliamo che i concerti siano una festa, per celebrare Habitat insieme al pubblico.
L’abbiamo fatto finora e continueremo a farlo sul palco con questa formazione, insieme a Giuseppe Scardino, Pasquale Mirra, Marco Frattini e Tiziano Bianchi, Mirko Cisilino, Giacomo Riggi, Federico Scettri e ancora Lorenzo Caperchi, Mattia Coletti e Andrea Amadei. È un grande onore per noi condividere il palco, e molto altro, insieme a loro.
Pur dando comunque, come dicevi tu stesso prima, importanza primaria alla musica, non avete mai rinunciato ad affrontare a modo vostro anche tematiche sociali e perfino politiche. Qual è da questo punto di vista il brano secondo voi più impegnato tra quelli del vostro repertorio?
Direi sicuramente Migrants, presente nel disco Scenario. È un brano strumentale, che accompagna le immagini di Paolo Pellegrin riguardo i flussi migratori dalla Siria.
In chiusura, anche se so che ci tenete a non approfondire troppo i vostri dettagli personali, in virtù di un progetto che si pone, come dicevamo prima, come “collettivo”, la molteplicità di sfumature della vostra musica mi spinge a farvi una domanda finale un po’ insolita: qual è stato il percorso che vi ha formato come musicisti prima di diventare “C’mon Tigre”?
Be’, sicuramente un percorso che nasce nel mondo del ritmo, dato che le ritmiche per noi sono fondamentali e spesso rappresentano il punto di partenza su cui costruiamo tutto il resto. Abbiamo sempre avuto e continuiamo ad avere una fortissima attrazione verso il ritmo, il richiamo del groove, perché è una sensazione forte, fisica, e noi, già prima dei C’mon Tigre abbiamo sempre vissuto la musica come mezzo di comunicazione, concentrandoci più sull’aspetto emotivo e comunicativo che tecnico. Certo, abbiamo studiato molto la tecnica ma per noi resta comunque un mezzo.
Musicalmente siamo onnivori e credo che il grosso della nostra formazione venga proprio da lì, dagli ascolti, da tutti quei dischi e quegli artisti che nel corso degli anni ci hanno davvero cresciuto e formato.
Grazie ragazzi, ci vediamo al prossimo live!
Qui il sito ufficiale della band: https://www.cmontigre.com/
Qui potete ascoltare Habitat:
DORIANA TOZZI