Si ritorna nella Terra di Mezzo per la sesta e ultima volta. L’ultimo capitolo della trilogia de Lo Hobbit ci catapulta subito nel vivo dell’azione e prende le mosse dai fatti de La Desolazione di Smaug. Il drago, Bard, la freccia nera, Pontelagolungo in fiamme. L’avvio è forte e avvincente. Prima del titolone d’apertura il film promette scintille. Poi… pochi alti e molti bassi, pochi elfi e molti nani. La pellicola è una lunga, lunghissima battaglia ai piedi del Monte Ereborn, l’unica che coinvolgerà tutte le razze della Terra di Mezzo e renderà necessaria la più imprevedibile delle alleanze contro l’avanzata degli orchi.
Ci sono molti elementi interessanti come l’evoluzione shakesperiana del re Thorin Scudodiquercia, ma estrarre quasi due ore e mezza di film da poco più di cento pagine di romanzo non è cosa facile. Il risultato è un mix di riletture, “situazioni importanti ai fini della storia” (poche) e “riempitivi” (moltissimi).
Come da tradizione tolkeniana, la dimensione è corale. L’hobbit Bilbo, il nano Thorin, l’elfo Legolas e l’uomo Bard si contendono la scena a suon di gesta eroiche e un po’ tamarre. Continua la poco avvincente storia d’amore tra l’elfa silvana Tauriel e il nano Kili, con Legolas a fare da terzo incomodo. Star Wars, La Vendetta dei Sith insegna che il bello delle trilogie-prequel sta soprattutto nel godersi i ponti di sceneggiatura che ci conducono a cose che già conosciamo nella loro versione definitiva. Qui quei “ponti” ci sono, ma ce ne saremmo aspettati un pochino di più.
Impossibile giudicare Lo Hobbit, La Battaglia delle Cinque Armate come un film a sé e non come il terzo capitolo di un Signore Degli Anelli in sedicesimo.
Peter Jackson è un gran cuoco, un cuoco navigato che conosce bene gli ingredienti, i gusti del pubblico ma che stavolta si limita al compitino. Troppo mestiere, poca anima. Le meraviglie della tecnologia, diventata nel frattempo forse troppo invasiva, non possono colmare il gap con le prime epiche avventure al Fosso di Helm e a Minas Tirith.
La Battaglia delle Cinque Armate chiude senza grossi applausi una trilogia che nasce già ad handicap rispetto alla precedente e che paga fin da subito un’eccessiva “pulizia” su schermo. Lo Hobbit è a tratti insopportabilmente patinato e le barbe dei nani, che uno immagina sporche, trasandate e sudate, sono miracolosamente curate e pulite. Un tocco in più di sporco alla Sergio Leone avrebbe giovato.
Se la prima trilogia era un meraviglioso vino d’annata, questa è più una riuscita imitazione del discount. Ai tolkeniani doc non resta che accontentarsi del retrogusto.
GIUSEPPE PIACENTE