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“Fury”, la guerra di Ayer oltre gli stereotipi del cinema di guerra

FuryLocandinaSvuotamento, sospensione, Purgatorio:  “È la guerra, la senti?”. Tra silenzi che ti parlano del frastuono più atroce ed una paura claustrofobica magistralmente tradotta in musica da Steven Price, Fury si muove ansiogeno e brutale tra gli ultimi brandelli di una storia che, ancora oggi, fatichiamo a comprendere e descrivere nella sua più sporca realtà. Una dimensione che sa di Purgatorio, capace di svuotare l’uomo del proprio essere e sospenderne qualsiasi giudizio.

Aprile 1945, mentre gli alleati sferrano l’attacco decisivo in Europa, il sergente dell’esercito americano Don Collier, da tutti chiamato “Wardaddy” (Brad Pitt), guida un’unità di cinque soldati in una missione mortale dietro le linee nemiche a bordo di un carro armato Sherman (chiamato, appunto, “Fury”). Una missione dai colori scuri, tipici della tragedia epica greca, nel cuore della Germania nazista ormai al collasso.

È un David Ayer estremamente fisico – perversamente fisico, oseremmo dire, con un quid di carpenteriana memoria – quello che troviamo a raccontarci le gesta di questo gruppo di uomini; un regista che dipinge la guerra spogliandola di inutili sovrastrutture, ideali puramente retorici, e lasciandoci da soli ad affrontarne la violenza: la carne martoriata diviene simbolo del luogo più scuro che l’anima possa raggiungere, quel punto di non ritorno nel quale la coscienza arriva ad affondare i denti per decidere di non risalire più a galla.

Non manca, inoltre, una commovente ed intensa componente visiva, quasi pittorica, che a tratti rimanda alle pennellate sporche e cariche di emozione di Goya:  il soldato a cavallo nel cimitero di carri armati o la città degli impiccati sono quadri in movimento pregni della più assordante rassegnazione, costanti memento mori per i protagonisti e noi spettatori che ne guardiamo le gesta.

Dalla cornice storica al coro di uomini che attraversa il film, però, il vero protagonista resta proprio il carro armato Fury – impossibile non cogliere il riferimento al film israeliano Lebanon, Leone d’oro a Venezia -, un oggetto freddo e privo di vita, capace di trasformarsi nella casa involontaria dei protagonisti, rassegnati sopravvissuti raccontati attraverso gli occhi del più giovane soldato. Tra contraddizioni e pezzi di sonno della ragione.

Gli stessi americani, seppure dipinti come eroi, agiscono spesso varcando il limite e macchiandosi di azioni che hanno ben poco di positivo, accogliendo in sé il demone del dubbio e della follia. Per quanto si possa parlare, quindi, di “guerra giusta”, ha ancora senso rappresentare per stereotipi soldati buoni e cattivi? Nel mezzo, a darci una risposta, troviamo Fury e la struggente rappresentazione di ciò che è la vita: tutto fuorché una visione bidimensionale, un dualismo manicheo. Tutto, laddove “il buono” spesso si lascia corrompere, trasformandosi in qualcosa di diverso.

Né bianco né nero, qualcosa di nuovo e capace di sottrarsi a qualsiasi definizione. Esattamente come la realtà.

STEFANIA D’AMORE

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