È la donna adulta, cosciente di sé, ironica, dissacrante ma che sa anche essere ancora bambina; è questo tipo di donna la musa ispiratrice della cantautrice Chiara Giacobbe, che, con l’ensemble della Chamber Folk Band, mette tutta la sua spiccata personalità nell’album Lionheart. Il disco è un manifesto che svela l’esistenza di una suggestiva ed evocativa realtà musicale italiana, benché espressa in lingua inglese, decisamente originale e musicalmente insolita. Ad accompagnare i suoni folk-rock dell’album è il violino, che prende posto negli arrangiamenti come strumento appartenente ad un pop sofisticato, lasciandosi alle spalle la sua collocazione orchestrale, e che riesce a veicolare la voce di Chiara, la quale, senza difficoltà, per timbrica, intensità ed interpretazione ricorda quella di Toni Childs.
Lionheart è un disco che racchiude una ricchezza di suoni singolare, capace di evocare immagini che si muovono tra i versi che hanno trovato nella lingua d’oltremanica il loro habitat naturale, dal momento che la cantautrice è evidentemente influenzata da una cultura anglofona e folk difficilmente riproducibile in italiano. Ed è così forte la componente musicale, nel senso proprio del termine, che trova spazio per sé in due tracce interamente strumentali: da un lato Pet Lion, in cui si torna bambini, anzi piccole donne. L’essenza eterea continua ad essere il cuore pulsante del disco, ma già nell’incipit del pezzo si avverte la tendenza a suoni più rock, ancora una volta accompagnati dal violino. L’assenza delle parole permette di lasciarsi condurre dai suoni in un viaggio indietro nel tempo, dritto nell’infanzia, accanto a quel piccolo grande animale di pezza che ha inevitabilmente accompagnato i giorni felici di ogni bambino. Dall’altro lato troviamo My Mexico, in cui i suoni prendono un posto preciso in un’apparente confusione. Padrone di casa, ovviamente, è sempre il violino, in buona compagnia di chitarra, batteria e basso.
Veniamo alla title track, Lionheart: un pezzo con cui si acquisisce consapevolezza di sé e che sprona a pavoneggiare il proprio coraggio. Un’immagine, quella di Cuor di Leone, con cui la cantautrice rivendica la sua coerenza e sottolinea la necessità di restare fedeli a se stessi e per questo Lionheart è probabilmente un’istantanea della vita della cantautrice, non solo privata ma anche musicale. I suoni eterei e super strumentali lasciano spazio anche suoni più arditi, che ben si mescolano con un violino che, accompagnando le strofe al ritornello, sublima la traccia. Chiara Giacobbe oltre che musicista è una vera interprete, una capacità rivendicata da molti, ma che poi effettivamente è di pochi, e lo dimostra in No Place To Hide, un pezzo da pellicola in cui si fa i conti con la parte più remota e tenebrosa dell’ego, che sorge alla perdita di qualcuno. Nessun nascondiglio, sfida vinta.
D’altronde la capacità evocativa era ben chiara sin dalla prima traccia, Let You Breathe, in cui suoni epici, traghettano verso i grandi nomi dell’Olimpo, quello di Era e Zeus. Suoni e voce evocativa danno il benvenuto ad un disco suonato e cantato. Si apre così un album che non si appiattisce mai e diventa pioniere di un genere che mescola l’amore per le ballad a suoni ispirati, onirici e a tratti folk. In No More Blue conosciamo una voce che tenta di essere eterea per quanto tradita da quel graffio che sbuca tra una vocale e l’altra, segno di un malessere non poi così ben smaltito dopo la rottura della storia d’amore raccontata. Si passa senza difficoltà ad un testo più scanzonato e meno drammatico, più affine al mondo British, quello di Particle Physics. Scrivere testi meno impegnati a gridare l’amore non corrisposto o le storie di tormento e abbandono non è solo più interessante ma anche più complesso, considerando gli scarsi spunti esistenti. Ritmo che avvolge, batterie, violini e voce possente che insegna come conservare le particelle dell’amore. Un violino che nell’ultimo minuto tenta di essere una chitarra, un impegno che premia il pezzo e che lo accompagna a parti strumentali estremamente interessanti. Il protagonismo del violino, a cui si è più volte fatto riferimento, si evince alla sesta traccia, Alice in cui corde pizzicate ritmano il brano le cui strofe sono scandite dallo strumento orchestrale in attesa di un’apertura che avviene con l’ingresso della batteria; e se il violino sospende la sua performance è solo per scaldarsi mentre si pizzica la chitarra. Un sound magistrale che caratterizza anche High Fidelity, una corsa di suoni difficili da collocare in uno schema formale.
Torna l’amore a fare da corollario dell’album nelle ultime tracce. Si parte con I Can’t Over You, una ballad imponente che non dimentica di riservare un ruolo centrale al violino, per ottenere un arrangiamento incalzante nel ritmo e sofisticato nella resa, ma che lascia al basso il ruolo di riempire l’intero arrangiamento. Una dichiarazione d’amore, condivisa a due voci (con Enrico Cipollini) è il tema di Blessed Be, che si apre con un’introduzione dolce e sognante per descrivere un amore che sa di fiabesco. Si prosegue, poi, con una ballad potente ed intensa, che cresce strofa dopo strofa, a rincorrere una voce che arriverebbe in alto, ma decide di farsi domare dalla melodia dolce ed eterea che accoglie anche la batteria. Un assolo strumentale occupa gli ultimi quaranta secondi, chiudendo il disco come si chiuderebbe un concerto, se non fosse per la bonus track Like A Light, una sorta di “behind the scenes” in cui si sbircia la cantautrice giocare con la musica, i suoni, l’acustica e la sua voce.
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Videoclip di Particle Physics : https://www.youtube.com/watch?v=Mu_eFdz72fs
COSIMO GIUSEPPE PASTORE