Spinaceto, Roma: una voce narrante, un uomo che trova il diario segreto di una bambina, ci racconta la storia di alcuni genitori e alcuni figli, apparentemente protagonisti di un’estate come tante, che però avrà un tragico epilogo, o forse no?
La forza di un film come Favolacce, che tutto sommato non si allontana molto da certo cinema europeo a cui si rifà smaccatamente o da certo cinema italiano che ha saputo radicarsi nella provincia per raccontare vite ai margini che racchiudono però universi interi, sta nel porsi in una dimensione tutta sua data dal fatto di essere estremamente realistico da un lato (con l’utilizzo di un romanesco strettissimo, con delle interpretazioni ai limiti del neorealismo e con il racconto di scene di vita quotidiana quasi tangibili) e magicamente visionario e grottesco dall’altro (per le soluzioni registiche, la straordinaria colonna sonora, le sequenze dall’impatto quasi onirico, lo stile favolistico da cui, appunto, il titolo che riassume alla perfezione la natura e l’anima dell’opera).
Una favola dai contorni macabri che parla di degrado inconsapevole, di finta agiatezza, di assuefazione a determinati modelli sociali, ma anche di vita di “strada”, di volontà di percorrere altre vie, di ribellione allo stato delle cose, di sogni di “gloria” (stupenda la sequenza che vede una ragazzina incinta intonare insieme al fidanzato la sua canzone preferita, nella speranza che il fatto che sia andata in radio nel momento stesso in cui ne stava parlando, rappresenti un segno di fortuna, per poi rendersi conto da sola della pochezza della sua situazione, cosa che la fa scoppiare in un pianto isterico).
E se da un lato ci troviamo ad immergerci nello spaccato di vita che ci trascina a viva forza in questo quartiere che non viene volutamente delineato in nessuna delle sue caratteristiche, per rendere il racconto particolare ancora più universale, dall’altro ci ritroviamo anche a raggelarci di fronte all’esplosione (termine non usato a caso) di un’”inconsapevole consapevolezza” di un gruppo di ragazzini, troppo grandi per non comprendere di doversi affrancare da quel tipo di figure genitoriali e da quel tipo di futuro imposto (le mamme subiscono, stanno zitte, sono servili, accudiscono i figli e la casa, mentre i padri guidano suv, “tiranneggiano” mogli e figli, fanno a gara di “opulenza” coi vicini, troneggiano tronfi nei loro giardini con piscine gonfiabili), ma troppo piccoli per capire in che modo farlo, senza causare gravi conseguenze.
Nel mezzo si pongono due “outsider”, un padre e un figlio, entrambi immersi nel loro degrado, apparentemente fuori luogo e fuori dal mondo, ma forse gli unici in grado di portare avanti una genuinità ormai scomparsa e, quindi, grazie a questa, di salvarsi. O forse no?
Trattandosi di “favolacce”, insomma, è facile decidere se un finale tragico è troppo tragico e quindi vale la pena ricominciare, riscrivendo la storia in un altro modo. Ed è così che fanno i fratelli d’Innocenzo, restituendoci il valore del racconto (in questo caso del racconto cinematografico per immagini) e l’importanza del rapporto con i fruitori dello stesso.
Trailer del film:
ALESSANDRA CAVISI