Geppetto è un falegname ridotto in povertà che decide di creare un burattino di legno e di portarlo in giro per il mondo per poter guadagnare qualcosa. Una volta ultimato il lavoro, però, questo burattino si rivelerà animato: per Geppetto inizierà l’avventura da padre, mentre per Pinocchio, questo il nome affibbiatogli, quello da essere umano, anche se non del tutto.
Vivremmo fuori dal mondo se non conoscessimo a menadito la storia di Pinocchio, nonché il significato universale che sempre ha portato con sé, fin dalla pubblicazione della fiaba di Collodi, passando per le varie trasposizioni cinematografiche e televisive. Sappiamo tutti che la storia di Pinocchio è una metafora sull’umanità intera, una storia di formazione in cui il bambino appena “venuto al mondo” deve imparare a vivere, scontrandosi con le brutture e le bellezze di questo mondo in cui è venuto, appunto.
Conosciamo, sicuramente, a menadito tutti i “micromondi” inventati dalla penna di Collodi, dal paese dei balocchi, alla casa della fatina, al circo di Mangiafuoco, senza dimenticare il campo dei miracoli o le fauci del pescecane. Micromondi che, anch’essi, sono metafore e allegorie e che assolvono al duplice compito di meravigliare il lettore, o lo spettatore in questo caso, ma di farlo anche riflettere su ciò che effettivamente vogliono rappresentare.
Tutto questo lo ritroviamo riprodotto fedelmente e quasi maniacalmente, con un rispetto filologico, oseremmo dire quasi pedante, nell’ultima fatica di Matteo Garrone che ha diretto questa ulteriore trasposizione cinematografica, dopo quella dimenticabile diretta da Roberto Benigni, mettendo quest’ultimo, intelligentemente, nei panni di Geppetto, dandogli quell’umanità che meritava e restituendo all’artista aretino un posto importante sul grande schermo, dove ha portato il solito se stesso, stavolta però molto aderente al personaggio da interpretare.
Inutile dire che i principali motivi di apprezzamento dell’opera, che scarseggia per forza di cose di originalità narrativa, risiedono nel gusto per le immagini, nella ricostruzione visiva di questi luoghi magici, nell’accurata scelta degli interpreti (azzeccatissimi Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, anche co-sceneggiatore dell’opera, nei ruoli del Gatto e della Volpe, ma non solo), nel notevole comparto tecnico (ad esclusione di una colonna sonora forse fin troppo ruffiana e ingerente) e nella capacità di condensare un mondo infinito all’interno di una pellicola della durata di due ore.
Quello che manca, però, è una firma vera e propria, uno sguardo personale pur in presenza del rispetto dello scritto originale, un motivo per il quale essere coinvolti non solo dal cosa, ma anche dal come e soprattutto dal chi. Quello che resta, invece, è un Pinocchio che, grazie all’intepretazione di Federico Ielapi, indipendentemente dal mancato effetto sorpresa nel finale in cui diventa finalmente “umano” (con tutto il carico che questo comporta, fatto di esperienze, di sofferenze e di lezioni imparate a caro prezzo), ci emoziona e in qualche modo ci ripaga dell’intera visione.
Trailer del film:
ALESSANDRA CAVISI