Chi conosce bene Ridley Scott è ormai abituato ad assistere ad un alternarsi quasi rocambolesco di pellicole degne di nota e di altre che stupiscono negativamente se si pensa, appunto, alla loro paternità. Non è facile, infatti, avere basse aspettative se parliamo dell’autore di pietre miliari come Blade Runner e Alien su tutti, ma anche i più recenti American Gangster e Prometheus. Pur non volendo necessariamente pensare a grandi kolossal come Il Gladiatore o ad opere importanti come quelle succitate, sia nel lontano passato, sia negli anni più vicini a noi, Scott ha saputo sfornare opere di interesse, nonostante non abbia eccelso particolarmente, basti ricordare Black Rain, Il Genio Della Truffa, Nessuna Verità e l’ingiustamente snobbato Sopravvissuto – The Martian. Il problema è che, purtroppo, gli scivoloni non sono mancati e, quindi, ogni volta che il Nostro torna al cinema con un nuovo lavoro, la perlpessità è d’obbligo, a dispetto delle aspettative che si possono avere riguardo al nome del regista.
La stessa perplessità, infatti, ha accompagnato il pre, il durante e il post visione di Tutti I Soldi Del Mondo, film da più parti citato soprattutto perché si ricorderà a lungo come la pellicola in cui l’astro calante Kevin Spacey è stato sostituito in calcio d’angolo da Christopher Plummer (in realtà prima scelta del regista da sempre per quanto riguarda questo film) a causa degli scandali sugli abusi sessuali che l’hanno travolto e di conseguenza emarginato dalle scene. Ma esulando da questi aspetti che nulla hanno a che vedere con la qualità dell’opera, possiamo assolutamente dire che stavolta Ridley Scott non ha mantenuto le aspettative e piuttosto ha rafforzato le suddette perplessità.
La materia d’origine, quella che tra l’altro ha dato spazio alla riflessione portante del film (uno dei pochi motivi validi di apprezzamento di Tutti I Soldi Del Mondo), è stata trattata in maniera fin troppo canonica, quando non banale, continuando nel racconto di uno dei rapimenti più famosi della storia recente in maniera quasi stanca e poco ispirata. Non ci sono grandi momenti di coinvolgimento, né scene madri che restano impresse, né tantomeno tratti formali o estetici di particolare rilievo in quest’opera che con un unico termine potremmo definire piatta.
Il rapimento in questione (quello del nipote di J. Paul Getty, uomo che per lungo tempo è stato uno dei più ricchi del mondo), invece di farci soffermare più spesso di quanto comunque non avvenga sul rapporto intensissimo e particolarissimo di Getty col denaro (ma per essere precisi con la rappresentazione materiale di ciò che con il denaro si può o non si può comprare), ci porta verso quelli che sono i difetti più vistosi del film.
Perché il ragazzino viene rapito da una banda di ‘ndranghetisti calabresi, poi da questi venduto a dei mafiosi siciliani e di rimando si entra in contatto sia con le forze dell’ordine italiane, impegnate nella ricerca, sia marginalmente con le brigate rosse, in quegli anni attive su più fronti criminali. Non si riesce a comprendere come sia possibile, soprattutto in grandi produzioni e con nomi altisonanti quale quello di Scott alla regia, che gli americani non sappiano come gestire gli “inserti” italiani nelle loro opere, così come avviene in Tutti I Soldi Del Mondo, dato che ogni volta che siamo di fronte a personaggi o a situazioni che vedono protagonista l’Italia, ci si trova, disarmati, di fronte ad una cattiva gestione degli attori, dei dialoghi, della messa in scena e non solo (basti citare, tra tutti, il rapitore calabrese “Cinquanta” che, nonostante sia ben interpretato dall’attore francese Romain Duris – almeno lui – porta con sé degli infantilismi e dei tratti fin troppo romanzati, scadendo quasi nel ridicolo).
L’unico motivo di interesse del film, dunque, come già citato in precedenza, lo ritroviamo proprio nei momenti in cui ad essere in primo piano è il vecchio avido e apparentemente senza cuore che si rifiuta categoricamente di pagare il riscatto per la liberazione del ragazzo e che tra l’altro quando comincia a cedere, cerca comunque di trovare l’escamotage fiscale che gli permetta di risparmiare o di pagare poche tasse.
Nonostante la sostituzione in extremis, Plummer dà vita in maniera impressionante a questo Paperon de Paperoni “live action” che, quantunque professi un amore incredibile nei confronti del nipote (tra l’altro era il suo preferito), non riesce a staccarsi dal suo denaro, un’entità che gli dà la stima di quanto di buono abbia fatto nella sua vita e del valore stesso della sua persona. Non è un caso, quindi, che con esso continui ad acquistare opere d’arte dall’inestimabile valore (in una scena un po’ didascalica, ma forse l’unica forte impatto, dice di preferire le cose alle persone, perché queste ultime ti feriscono e ti deludono, le prime no) e non è nemmeno un caso che si senta l’incarnazione vivente dell’imperatore Adriano.
Cosa rimane, quindi, di questo film, se escludiamo la prova recitativa di Plummer e l’interessante considerazione del rapporto tra il suo personaggio e i soldi? Rimane la sempre perfetta Michelle Williams (nei panni della nuora di Getty senior, madre del ragazzo rapito) in un’interpretazione rigorosa ma credibilissima, e la curiosità di informarsi sul reale caso Getty, qui fin troppo stravolto per doveri di copione: come se fossimo in una soap opera, infatti, Scott fa coincidere “magicamente” la liberazione del ragazzo (la gestione della sua fuga rompe tra l’altro la cosiddetta sospensione dell’incredulità, allontanandosi molto dalla realtà dei fatti) con la dipartita del vecchio, con una metafora se vogliamo un po’ esagerata.
Una cosa è certa, però, grazie al volto e all’espressione di Michelle Williams di fronte alla scultura che riprende il volto del suocero, il fotogramma finale riesce, finalmente, a trasmetterci un’emozione.
ALESSANDRA CAVISI